Difficile trovare qualcosa di più “yankee” del contenuto di “Little hard blues”, almeno dal punto di vista delle origini musicali.
Parliamo ovviamente di “american roots music”, di un suono che si abbevera copiosamente all’inesauribile fonte del blues, del soul, del southern e del funky, che tanto ha offerto in fatto di stimolo ai molti che l’hanno voluta “brutalizzare” fino a raggiungere i ritmi meticci del rock n’ roll e la loro filiazione ancora più irruente e “dura”, proprio quella che troviamo celebrata nella “didascalica” testata di questo disco.
Inutile dire che al di là delle sue primitive discendenze questa “roba” è diventata un vero “patrimonio dell’umanità”, con la nostra
Italietta che, seppur in ritardo e magari pure con un po’ di “fatica” in più rispetto ad alcuni dei suoi autorevoli coinquilini nel palazzo del Vecchio Continente, ha dimostrato e dimostra di poter fornire un sostanzioso e vitale contributo alla “causa”.
Quello del nostro
Andrea "Ranfa" Ranfagni, toscano di Firenze, è sicuramente da annoverare tra gli omaggi maggiormente felici ed ispirati indirizzati a tale ambientazione sonora, forte di una preparazione, di un curriculum e, soprattutto, di un’
anima che gli consentono di rendere pezzi dalle strutture fortemente caratterizzate e familiari, momenti emozionali di grandissima intensità.
E’ chiaro che poter contare su ospiti del calibro di Ian Paice e Bernie Marsden, gente che la materia la conosce
piuttosto bene, e altresì sulla collaborazione di James Christian, Tracy G e Roberto Tiranti, indiscutibili autorità del panorama rock internazionale, può essere valutato come un sussidio parecchio significativo, ma vorrei andare oltre questo irrefutabile “valore aggiunto”, ponendo l’accento sulla prestazione di Ranfa e degli altri musicisti meno “noti” che prendono parte all’opera: un corposo team affiatato, “colto” e appassionato, assolutamente degno di presenze così prestigiose.
Riferimenti? I
soliti, ovvero Led Zeppelin, Muddy Waters, Grand Funk Railroad, ZZ Top (ben realizzata la rilettura della loro “Just got paid”), Otis Redding, Humble Pie, Aerosmith, Whitesnake, Deep Purple, Stevie Wonder, Bad Company, Little Feat, … (e l’elenco potrebbe continuare a lungo) e tuttavia non sia ha mai l’impressione di una sfibrata o contraffatta rilettura dei “classici”, che viceversa, sotto la sapiente direzione delle vibranti modulazioni fonetiche infuse dall’eccellente singer nostrano (per la cronaca, i suoi modelli più evidenti sembrano Hughes, Rodgers, Gillan, Coverdale e Plant, evocati con notevole carisma individuale), appaiono onorati con la giusta dose di grinta, freschezza, ardore e vocazione.
Segnalazioni singole? Impresa ardua e forse pure poco produttiva, dacché ogni brano, sia che si tratti di sprigionare la divertente disinvoltura del R&B, sgranare la malinconia del blues autoctono o sprizzare scintille di seventies hard rock, riesce sempre a conquistare l’ascoltatore appassionato traducendo in feeling autentico quelle note troppo emozionanti per essere sminuite dalla
razionale imputazione di una mancanza di originalità.
Cercare delle novità da queste parti è insensato e inutile, a fare la differenza sono necessari un songwriting e un pathos interpretativo all’altezza della lezione dei giganti del genere … “I learned my lesson well”, afferma uno dei gioiellini dell’albo, e parafrasando questo titolo, dopo aver goduto ripetutamente dell’intero programma offerto da “Little hard blues”, c’è davvero da crederci … Con artisti come questi l’eredità dell’hard rock blues è certamente in buone mani.
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