Nel calderone, sempre più gonfio e nutrito, delle reunion di lusso, non poteva mancare certo quella degli
Accept. Dopo la parentesi del 2005 in cui i nostri sono tonati sulle scene con il singer originale Udo Dirkschneider, ma solo per calcare i palchi dei più importanti festival europei, è ora giunto anche il momento del come back discografico, a ben 14 anni dall’ultima fatica in studio, “Predator”, uscito, appunto, nel 1996. C’è un piccolo neo, però, che rischia di inficiare, almeno sulla carta, il ritorno in pompa magna della band di Wolf Hoffmann, e cioè che il piccolo grande singer non ha voluto più seguire la ciurma dopo la date live di cui sopra. Per niente demoralizzati, i restanti quattro si sono rimboccati le maniche e hanno trovato nella persona di Mark Tornillo, ex TT Quick, il giusto sostituto dietro il microfono. Mettiamo subito in chiaro una cosa. Sostituire Udo non è affatto una cosa semplice, sia per il suo timbro particolarissimo, sia per il suo immenso carisma. Onore, quindi, a Mark, che ha accettato una sfida davvero notevole. Ne è uscito con le ossa rotte? Direi decisamente di no, in quanto ascoltando l’album, il suo stile a metà tra Udo stesso e Brian Johnson, alla fine convince, grazie ad una prova grintosa, fresca e spontanea da parte del singer americano. Certo, la curiosità di ascoltare i nuovi brani cantati da Dirkschneider resta viva durante tutto l’ascolto del cd, ma è inutile rimanere sterilmente ancorati al passato. Gli Accept di oggi sono questi, e vi assicuro che il loro come back non deluderà nessuno, vecchi o nuovi fans che siano. D’altronde sarebbe strano il contrario, vista la partenza in your face dell’album, con la grintosa “Beat the bastards” e l’anthemica “Teutonic terror”, che, sono sicuro, diventerà un loro nuovo inno dal vivo. Si prosegue col mid tempo “The abyss”, in cui Tornillo dà sfoggio delle sue capacità, e con la titletrack, forse non del tutto all’altezza del ruolo che ricopre, ma comunque un ottimo brano, dal ritornello deciso e incisivo. E se “Shades of death” passa leggermente in sordina col suo incedere cupo, ci pensa “Locked and loaded” a dare una nuova scossa al cd, un brano veloce e pungente nella piena tradizione del metal teutonico. D’altra parte chi meglio degli Accept potrebbe scrivere brani di questo tipo? È proprio questa la chiave di lettura dell’album, visto che il classico trade mark della band è assolutamente presente, ma suona perfettamente attualizzato grazie all’ottima produzione di Andy Sneap, che mette ottimamente in evidenza il drumming tellurico di Stefan Schwarzmann e le chitarre taglienti di Hoffmann e Frank. Tornando al disco, poteva mancare la ballatona strappalacrime? Ovviamente no, ecco quindi “Kill the pain”, con Tornillo ancora sugli scudi, che dimostra di poter cantare senza problemi anche con un tono più pulito rispetto a quello graffiato utilizzato negli altri brani. “Rolling thunder”, invece, con un titolo così non può che essere l’ennesimo brano schiaccia sassi, e la band non molla il colpo neanche con la successiva “Pandemic”. La tripletta finale, e “No shelter” in particolare, dimostra che in questo album non ci sono filler, e che gli Accept sono tornati di diritto tra i grandi del metal, facendo quello per cui sono nati, quello che sanno fare meglio, suonare, appunto, del fottutissimo heavy metal tedesco. Il confronto col passato era inevitabile, ma i nostri ne sono usciti assolutamente a faccia alta, con un album con convince dalla prima all’ultima nota, e che ha nella copertina l’unica sua nota negativa. Peccato per l’assenza di Udo, ma non si può avere tutto dalla vita…