L’inizio degli anni ’90 si connota con l’esplosione del cosiddetto
grunge, termine utilizzato per descrivere il fenomeno musicale fuoriuscito dalla talentuosa e ribollente scena di Seattle, frutto di bands spesso molto diverse tra di loro.
Tra questi ci sono gli
Alice In Chains, i primi a fare veramente il botto, almeno dal punto di vista commerciale, con il presente album di debutto, “
Facelift”.
Gli
Alice In Chains, che nascono come gruppo glam (
Alice N' Chainz), appartengono all’ala più estremista del genere, derivando il loro sound da una solida base heavy metal (
Jerry Cantrell è un vero guitar hero), unita a radici bluesy importanti e con una personalità fuori dal comune, grazie alla voce, unica e inconfondibile, di
Layne Staley.
L’alchimia che si crea, anche grazie al valido supporto del bassista
Mike Starr e del batterista
Sean Kinney, è davvero eccezionale e produce una serie di canzoni incredibili, ancora oggi celebrate dai fan e dagli addetti ai lavori.
Si parte subito con “
We Die Young” e il suo riff metal, tipicamente ottantiano, una canzone dura, veloce, con un ritmo incredibile, un vero inno all’autodistruzione, celebrata nel monumentale ritornello “
We die young and faster we run”. Ed è subito leggenda.
Segue altro pezzo da novanta, il groove animalesco di “
Man In The Box”, dove fanno la comparsa per la prima volta quello che sarà uno dei trademark della band, ovvero i controcori di
Jerry Cantrell. Dal punto di vista lirico la canzone anticipa quello che sarà, il disagio di vivere di
Layne Staley e i suoi problemi di dipendenza. Tuttavia occorre anche dire che in “
Facelift” gli
Alice In Chains non sono ancora una band disperata, e il mood del disco non è ancora così serioso e pesante come sarà in futuro, anche se la successiva “
Sea Of Sorrow” sembrerebbe smentirlo.
Al di là del titolo, molto esplicativo, la canzone è un pezzo coinvolgente, con una melodia eccelsa che trova compimento nel bellissimo ritornello. Notevole e pregevole il lavoro di chitarra di Cantrell.
Con “
Bleed The Freak” si ritorna a pestare duro, le chitarre viaggiano che è un piacere,
Layne Staley realizza una prova vocale assoluta, sembra che la sua voce sia sulle montagne russe, alternando passaggi lenti e sofferti alla potenza del ritornello. Grandissima canzone.
Con “
I Can’t Remember” si comincia a rallentare, ed emerge la sofferenza di Layne, che comincia a scendere già con la sua voce, interprete più che cantante, in un pezzo sofferto, teso, dal finale liberatorio con quel “
I am alive!” urlato a pieni polmoni.
La successiva “
Love, Hate, Love” è ancora più cupa, e porta alle estreme conseguenze il precedente brano, trattando di un amore disperato e delle sue conseguenze. Layne dà vita a una prova vocale monstre, imponendosi subito come una delle migliori voci del panorama rock. Il brano ha un andamento morboso, malato, e sembra di essere nella mente del protagonista quando dice:
“Lost inside my sick head
I live for you but I'm not alive
Take my hand before I kill
Still love you, I still burn”
Anche in questo caso il finale è da cardiopalma.
Con “
It Ain’t Like That” si torna a pestare, con una canzone dal groove pazzesco, che dal vivo letteralmente non fa prigionieri. Heavy as fuck direbbero da quelle parti.
Siamo a metà disco e non c’è una sola nota fuori posto, siamo dalle parti del capolavoro assoluto.
La seconda parte del disco variega il sound, mettendo in luce ulteriori influenze, ma sempre con canzoni incredibili.
“
Sunshine” è praticamente una canzone soul con le chitarre metal, Layne ancora una volta incredibile. “
Put You Down” è blues metal dove la band gioca con certi funambolismi frutto del continuo duettare tra la chitarra e la ritmica, con un ritmo decisamente allegro andante.
“
Confusion” rallenta molto il ritmo, si torna alla sofferenza, e quando si tratta di interpretare la voce di Layne diventa teatrale, dando il meglio di sé nei saliscendi che trovano compimento nel bellissimo ritornello.
“
I Know Somenthin’ (‘Bout You)” è un pezzo funk che dimostra, ancora se ce ne fosse bisogno, la bravura e l’eclettismo della band, che riesce a contaminare il proprio sound, ma sempre con un occhio alle chitarre pesanti.
“
Real Thing” chiude il disco così come l’aveva iniziato, con un heavy metal cadenzato e pesante, con ancora una volta Staley e Cantrell sugli scudi. Il testo è tristemente profetico:
“I grew up, went into rehab
You know the doctors never did me no good
They said son you're gonna be a new man
I said thank you very much and
Can I borrow fifty bucks?”
Un esordio che rasenta il capolavoro, per qualità delle composizioni, per il momento storico, per la prova dei musicisti e il significato intrinseco. Non poteva esserci inizio migliore per la leggenda cupa e disperata degli
Alice In Chains.