I primissimi anni ’90 stanno al thrash metal come il fuoco di sbarramento sta a un soldato al fronte: di qui non si passa!
Vuoi per il repentino mutamento del mercato discografico, vuoi per il naturale esaurirsi dell’ispirazione che sta alla base di ogni movimento artistico, il thrash classicamente inteso non arrivò alla metà del nuovo decennio, finendo per scompaginarsi in una serie di miscelazioni sonore che ne decretarono, di fatto, la morte (o l’ibernazione, secondo come si percepisce l’attuale revival).
Quella del genere fu, tuttavia, un’agonia piuttosto lenta, al cui interno nacquero dischi di qualità eccelsa tra cui spicca forzatamente la quarta raccolta d’inediti che i Megadeth pubblicarono esattamente nel 1990.
Rispettando alla lettera le tradizioni di famiglia, anche questa volta Mustaine rinnova la formazione del gruppo, confermando al proprio fianco esclusivamente il fidato
Ellefson, cui aggiunge
Marty Friedman e
Nick Menza.
Durante l’ascolto del disco, è lampante che la formazione così configurata abbia dato alle stampe un prodotto assolutamente impeccabile, che brilla di luce propria in virtù di una ricercatezza compositiva che lo colloca ben oltre i canoni del thrash (anche di quello mediamente oltre misura cui i Megadeth avevano abituato i propri fan). Soltanto i
WatchTower seppero fare di meglio ma non in misura così facilmente assimilabile. Il maggiore pregio di ogni singola nota di Rust In Peace è, infatti, l’eccezionale sinergia con cui elaborazione e melodia compositiva accompagnano il pubblico in un ascolto estremamente fluido, che non lesina momenti di trascinante headbanging sulle note dei riff più massicci di Mustaine piuttosto che serie (maldestramente) sconfinate di air guitar e drumming, nel tentativo d’inseguire il funambolismo mai fuori posto di Friedman o l’eccezionale dinamismo ritmico che lo sconosciuto Menza propone con scioltezza disarmante. Anche Ellefson, contagiato da tale tripudio qualitativo, è maggiormente produttivo nell’economia del disco.
Facendola breve, siamo di fronte a un lavoro obiettivamente privo di punti deboli. Dunque diffidate di chi vi dirà che il ghigno iniziale di
“Lucretia” non serve a nulla, che
“Dawn patrol”, con la sola malaugurante voce di Mustaine accompagnata da basso e batteria, è un riempitivo, mandate a ramengo l’amico che vi decanterà le lodi dei vergognosi suoni con cui è stato ristampato l’album nel 2004 e consigliate un soggiorno a Gaza a chi vi dirà di non poterne più d’ascoltare testi che denunciano l’insensatezza della guerra, perché voi avete in mano l’ultimo grande album dei Megadeth!
Se, poi, questo è il primo lavoro del gruppo che ascoltate (capita spesso) concedetevi anche alle uscite precedenti, soprattutto se ciò che vi ha maggiormente colpito di Rust è stata l’irruenza di Mustaine, che in quest’album è certamente più contenuta rispetto agli episodi maggiormente “punk” della sua precedente carriera (chi ha detto
"Hook in mouth"???)