Gli Helloween del nuovo millennio hanno ricevuto, con Keeper of the seven keys: the legacy”, un improbabile regalo dal cielo.
Un lavoro piacevole, a tratti prolisso, e decisamente lontano dai fasti dei bei tempi (anche quelli di Deris, e lo dico per evitare pregiudiziali critiche), ha fatto letteralmente il botto, venendo accolto come il più grande dei capolavori, e permettendo alle zucche di Amburgo di girare il mondo in lungo e in largo come mai negli anni recenti.
Un tour trionfale che è stato poi immortalato nel cd/dvd “Live on 3 continents”, uscito lo scorso anno. Nulla da eccepire sulla caratura on stage di questa band: è da tredici e rotti anni che li vedo, e non mi hanno mai deluso, nonostante la voce di Andi non sia stata sempre una garanzia.
Lo show di Milano della scorsa primavera fu poi decisamente buono, impreziosito da un’esecuzione da brividi di “Keeper of the seven keys” che da sola valeva il prezzo del biglietto. Tutto questo per dire che, se anche la testimonianza concreta di tali gesta è probabilmente autentica quanto lo fu il ben più celebre “Unleashed in the East” (fan dei Judas non massacratemi di nuovo, ormai lo hanno ammesso anche loro!!), il loro valore sulle assi del palcoscenico non può essere messo in dubbio.
Qualche parolina di più bisognerà invece spenderla per quest’ultima prova in studio: a dispetto dell’entusiasmo espresso da Andi Deris in sede di intervista (leggere per credere!), mi pare che “Gambling with the devil” nulla tolga e soprattutto nulla aggiunga ai deludenti “Rabbit don’t come easy” ed al già citato “The legacy”.
Ci sono le solite cavalcate power di Weikath (“The saints”, “Final fortune”, “Heaven tells no lies”), le sterzate hard rock di Deris (“As long as I fall”), le botte di energia in stile “Walls of Jericho” (l’opener “Kill it”, che fa il verso in maniera clamorosa ad una certa “Battle hymn”…).
Mancano, e questo sì che è sorprendente, le ballate, ma sinceramente non ne vedo il problema, a giudicare da quanto era moscia “Light the universe”.
Nel complesso si tratta di un lavoro potente, in certi punti veramente duro, forse il più duro dai tempi del già citato debut, e che gode davvero di un’ottima produzione, cosa che non è sempre stata scontata nei loro dischi.
Peccato solo che questi elementi positivi non siano assolutamente sufficienti: non lo sarebbero per una band esordiente, figuriamoci per gli Helloween! Il fatto è che l’ispirazione, che già latitava paurosamente sui lavori più recenti, continua a mancare all’appello anche in questa sede.
E mi spiace, ma senza quella le grandi canzoni non si scrivono, c’è poco da fare. Chiariamoci: tutto il disco scorre via piacevolmente, non ci sono problemi a reinserirlo nel lettore la volta dopo, e ci sono anche alcuni episodi particolarmente riusciti.
Vero è però che paragonare le buone “The saints”, “Final fortune” ad autentiche perle come “Where the rain grows” o “Before the war” risulta abbastanza azzardato. E la stessa cosa avviene per gli episodi meno autenticamente power: “As long as I fall” è gradevole, ma non è “Handful of pain”, questo è poco ma sicuro!
E notate che nessuno qui sta scomodando i mostri sacri: gli Helloween dell’era Deris hanno fatto cose eccezionali, ed è davvero un peccato dover constatare questo lento e probabilmente inesorabile declino. Che la colpa sia da attribuire alla defenestrazione di Kusch e Grapow non è affermazione così scontata: già “The dark ride” mostrava segni di cedimento, e dell’ultimo disco dei Masterplan è meglio non parlare. Più probabile che sia un calo fisiologico: prima o poi capita a tutti, difficile stare vent’anni su livelli inarrivabili…
Consoliamoci dunque col pensiero dell’imminente tour assieme ai Gamma Ray: se scrostata dalla patina di strumentale effetto nostalgia che indubbiamente la ammanta, questa potrebbe essere un’occasione privilegiata per vedere all’opera due band che per lo meno dal vivo hanno ben pochi rivali…