(22 giugno 2011) Gods of Metal 2011: Un Mercoledì da Leoni...

Info

Provincia:MI
Costo:60 € + d.p.
Dopo la novità del Gods 2010 a Torino, quest'anno ci si prova con il Gods infrasettimanale e compresso in un'unica giornata.

Così la colonna torinese si prende un bel giorno di ferie dagli obblighi metalmeccanici a favore di quelli solamente metallici, per fronteggiare l'edizione 2011 del Gods of Metal, caratterizzata da un buon bill, capeggiato dai Judas "lascio o raddoppio?" Priest, che prende il via con i canadesi Baptized in Blood, ben presto doppiati dai ben più noti Cavalera Conspiracy, la nuova realtà dei fratelli Cavalera, tuttavia il nostro report copre solo dai Loaded dell’ex Guns Duff McKagan in avanti.
Se la prima impressione dell’Arena Fiera Milano di Rho non è delle migliori: un enorme parcheggio incastrato tra moli e magazzini, tuttavia con il tempo prevalgono gli aspetti positivi, l'acustica si rivela più che buona (gli unici a patirne più del dovuto sembrano essere stati soprattutto Cradle Of Filth ed Europe), ci sono diversi stand gastronomici (i prezzi sono perlomeno abbordabili) ed il tempo è stato clemente, con poche gocce d'acqua ed un sole mai realmente cattivo,

Devo ammettere che alla resa dei conti si è trattato di un Gods più che positivo, ma non si è percepita quella sensazione di evento tipica di questo appuntamento.

Sergio Rapetti

Duff McKagan’s Loaded

Nel perfetto rispetto degli orari alle h.12,45 si presentano sul palco i Duff McKagan's Loaded pronti a scaldare un pubblico che al momento si presenta poco numeroso e per nulla rinfrescato dalle 2 gocce di pioggia cadute proprio ad inizio performance (la location non aiuta visto che per l’occasione si è scelta una maestosa distesa di cemento).
La scaletta propone una sequela di pezzi in perfetto stile hard rock che si susseguono consecutivamente senza però suscitare forti emozioni e picchi di entusiasmo. Pur riscontrando una discreta amalgama tra i Loaded probabilmente ci si aspetta maggior carisma e convinzione dall’ex Guns del quale, purtroppo, occorre evidenziare anche una capacità canora non eccellente. Spetterà giusto alle 2 cover “So Fine” ed “Attitude” far salire un minimo il livello di energia da parte del pubblico, riscontrabile appena dalle intonazioni delle prime file, ma ci si rende conto che ciò non possa bastare per dare una considerevole impronta all’esibizione. Alla fine la mezz’ora di musica espressa risulta alquanto scarna e deludente e pur riconoscendo l’impegno della band (l’inserimento del nuovo drummer Isaac Carpenter risulta apprezzabile) si è assolutamente convinti che dal blasonato Duff fosse d’obbligo aspettarsi qualcosa di più.

Paolo “Sepa” Seghesio

Epica

Stavolta tocca agli olandesi Epica dare quella sferzata che sarebbe utile a risvegliare gli animi. Il riscontro iniziale si prospetta positivo ascoltando i primi brani proposti dalla sempre affascinante Simone (oggi un po’ meno rossa del solito) accompagnata dalle pesanti intonazioni growl di un Mark Jensen direi oggi in gran forma. La performance del gruppo si snoda attraverso i successi più noti e la scelta è inevitabilmente propizia per fare da richiamo ad un pubblico decisamente più vivo rispetto alla precedente esibizione. Aldilà delle capacità individuali della front-singer la scaletta propone un sound efficace e potente tale da alternare pesanti riff e martellate di doppia cassa a melodie tipicamente sinfoniche (tanto per non tradire l’estrazione musicale della formazione). Meritano note di rilievo la massiccia “Unleashed” e la successiva “Martyr of the free word” dove la Simone si fa apprezzare anche per le sue classiche movenze metal. E’ anche il pubblico a farla da padrone intonando all’unisono una “Cry of the moon” dolcemente scandita dalla singer e via di seguito per arrivare al gran finale dedicato alla maestosa “Consign to oblivion” dove il coinvolgimento e la tecnica dei musicisti hanno avuto modo di esprimersi al meglio. Si giunge così al termine con l’impressione di riscontrare un discreto appagamento tra la platea, ora più calda e numerosa e, per ricondursi alle solite conclusioni di rito, possiamo sicuramente affermare che lo show degli Epica sia riuscito ad accendere ed avviare potentemente questo Gods, marchiato da nomi altisonanti, convincendo ed accontentando non solo i fans più devoti ma anche coloro i quali, compreso il sottoscritto, sono venuti qui per ascoltare del buon e sano Metal.

Paolo “Sepa” Seghesio

Cradle Of Filth

Il semplice tendone nero che campeggia alle spalle dei musicisti non riesce certo a creare l'atmosfere ideale per il Black & Gothic Metal dei Cradle Of Filth: restiamo in pieno giorno ed in una zona industriale della periferia milanese.
Lottando anche con un sound non ottimale, Dani Filth e soci buttano sulle assi del palco il solito impegno, mentre Dani ringhia, meglio nei passaggi in screaming che con quelli in growl, le proprie canzoni (tra queste "Her Ghost in the Fog", "Nymphetamine" o la conclusiva "From the Cradle to the Enslaved") di fronte ad un pubblico che, nella sua maggioranza, sembra comunque seguire la formazione britannica in maniera un po' superficiale.
Come tutti sanno, i vampiri e la luce solare non vanno a braccetto, ed i Cradle Of Filth nell’occasione non smentiscono questa affermazione, perdendo d'impatto, sia visivo sia musicale.

Sergio Rapetti

Mr. Big

Sembrerà strano, ma ho sempre considerato i Mr. Big un gruppo un po’ sottovalutato.
Nonostante siano riusciti a resistere all’impatto del grunge, conquistando un grande successo commerciale, con almeno un paio di hit in grado di rassicurare il conto in banca di chiunque, l’impressione è che non possano davvero contare su quel credito inoppugnabile che si deve ai migliori alfieri del classico hard rock yankee. Sarà per la nomea di supergruppo, per la quale attrazione, aspettative e diffidenza sono fatalmente concomitanti, sarà proprio per qualche scelta artistica eccessivamente condiscendente, ma è abbastanza raro sentirli menzionare quando si parla di maestri del settore.
Beh, signore e signori alla lettura, questi quattro ragazzi americani, dalla comprovata esperienza, rappresentano veramente l’archetipo della rock band a tutto tondo: tecnica inattaccabile al servizio delle canzoni, una maturità artistica che gli consente di spaziare tra i generi e una voglia di suonare e divertirsi assieme sconosciuta a molte formazioni anche molto meno (ap)pagate.
Dopo l’eccellente albo del “ritorno” (“What if …”), l’esibizione di oggi non fa che confermare le considerazioni appena espresse, offrendo al pubblico (compreso un interessato Duff McKagan) e al sole (che improvvisamente squarcia le nubi, presumibilmente attratto da cotanta magnificenza … vabbè) una dimostrazione inequivocabile di quella contagiosa energia che il rock n’ roll sa ancora elargire copiosamente anche nel nostro tecnologico e superficiale terzo millennio.
Attraverso una setlist piuttosto “fisica” e diretta, i Mr. Big incantano per qualità artistiche, capacità di semplice coinvolgimento emotivo e una grande disinvoltura con la quale esibiscono le loro dotazioni specialistiche senza mai ostentarle in maniera fine a se stessa. Nemmeno durante gli assolo di Paul Gilbert (che continua a scegliere d’indossare le cuffie anche dal vivo … eccolo, forse, l’unico “vezzo”!) e di Billy Sheehan si percepisce un senso di smodato egocentrismo … si tratta semplicemente di un’altra porzione significativa, ma complementare, di un copione costantemente avvincente, pur nella sua “splendida familiarità”. Pat Torpey è il “solito” metronomo, Eric “faccia d’angelo” Martin ha una di quelle voci capaci di scatenare brividi endorfinici d’approvazione, graffia e lusinga come quella di un Marriot “aggraziato”, marchiando a fuoco i pezzi almeno quanto la chitarra e il basso dei suoi “mostruosi” colleghi.
Ed eccoci ai “famosi” brani … le nuove “Undertow” (strepitosa!), “American beauty”, “Still ain't enough for me” si “confondono” con i “classici” “Daddy, brother, lover, little boy” (con immancabile trapano annesso), “Alive and kickin’”, “Colorado bulldog” e "Take a walk”, in una gagliarda profusione di hard, blues, funk ed estro, mentre il pop raffinato di "Green-tinted sixties mind” sarà l’unica “licenza” soft concessa a questo vibrante pomeriggio lombardo.
Ancora due citazioni, la “chicca” Talas-iana (poi ripresa su “Eat em’ and smile” della Dave Lee Roth Band) “Shy boy” e “Addicted to that rush” (la cui stesura iniziale risale anch’essa ai tempi della formazione di Buffalo che rivelò al mondo il talento spropositato di Sheehan), due autentiche bombe soniche coniuganti iperbolico funambolismo strumentale ed enorme suggestione sensoriale.
Un concerto elettrizzante, il migliore della giornata, assieme a quello degli immarcescibili Metal Gods che la chiuderanno.

Setlist:
01. Undertow
02. American Beauty
03. Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)
04. Green-Tinted Sixties Mind
05. Take Cover
06. Alive And Kickin’
07. Colorado Bulldog
08. Price You Gotta Pay
09. Guitar Solo
10. Still Ain't Enough For Me
11. Take A Walk
12. Shy Boy
13. Around The World
14. Bass Solo
15. Addicted To That Rush

Marco Aimasso

Europe

E’ la terza volta, da quando sono tornati alla “vita artistica”, che ho l’occasione di godere di un’esibizione degli Europe, e se devo essere proprio sincero, quella di oggi mi è sembrata la meno efficace.
Niente di “disastroso”, sia chiaro, ma nonostante il sorriso costantemente smagliante di Joey Tempest (scompare per un attimo solo quando alla fine dello show gli “staccano” il microfono prima che possa ringraziare ulteriormente il suo affezionato pubblico!) e la prova assolutamente dignitosa di tutta la band, la sensazione è che lo spettacolo odierno sia stato un po’ carente dal punto di vista del “mordente”.
Una parte sostanziosa di responsabilità è da imputare ad un sound poco incisivo (è soprattutto la chitarra di Norum a mancare di “grip”) ed esplosivo (caratteristiche che verranno prontamente e “magicamente” recuperate per l’esibizione dei Whitesnake), e tuttavia anche la band svedese, pur non lesinando in entusiasmo, non sembra completamente a suo agio.
Ne scaturisce una performance comunque assai godibile, edificata su una scaletta energetica e vibrante, che ovviamente non può trascurare le hit del passato, concede ampio spazio ai brani più recenti e sa anche inserire nel programma, un po’ a “sorpresa”, un brano come “More than meets the eye” uno dei tanti gioiellini della loro carriera finiti per essere soffocati dall’ingombrante e universale popolarità di quelle canzoni che rappresentano inevitabilmente la “croce” e la “delizia” della storia del gruppo.
“Last look at Eden” e la favolosa “No stone unturned” dimostrano ancora una volta che gli Europe sono un’entità artistica ricca di classe e di fecondo estro creativo, “The beast”, “Love is not the enemy” e “Start from the dark” picchiano sodo con gusto e forza espressiva, “Superstitious” (peccato per il solo non impeccabile … complessivamente è forse Norum il meno in “palla” …), “Scream of anger” e “Seventh Sign” garantiscono intensità ed emozioni e poi ci sono loro, le “amate-odiate” “Carrie” (non ne sono sicuro al 100%, eppure mi sembra di aver sentito la frase “this is only for Sergio Rapetti …” durante l’annuncio del pezzo … boh, …), “Rock the night” (con tanto di accenno celebrativo a “Livin’ after midnight”!) e “The final countdown”, capaci di far cantare e saltare tutto il pubblico, dai più “grandi” ai “piccini”.
L’ultima notazione va spesa per una frase di Mr. Tempest, pronunciata in italiano: “grazie per averci sostenuto tutti questi anni …”. Ve lo siete meritato, ragazzi, e sono sicuro che ci regalerete tanta altra buona musica e un sacco di altri concerti emozionanti (magari anche più di questo!), conquistando il nostro supporto anche per gli anni a venire …

Setlist:
01. Last Look At Eden
02. The Beast
03. Superstitious
04. Scream of Anger
05. No Stone Unturned
06. Love Is Not The Enemy
07. Guitar Solo
08. Seventh Sign
09. Carrie
10. The Getaway Plan
11. More Than Meets The Eye
12. Start From The Dark
13. Rock The Night
14. The Final Countdown

Marco Aimasso

Whitesnake

Ci sono fondamentalmente due diversi approcci per valutare la prestazione dei Whitesnake al Gods Of Metal 2011: quello della “ragione” e quello del “cuore”.
Razionalmente, i Whitesnake visti oggi non rappresentano propriamente un’esperienza emotiva esaltante.
Le loro canzoni più recenti sono eccellenti “riletture” dell’illustre passato, ma mancano completamente d’imprevedibilità, raccontano (anche dal punto di vista lirico) una “storia” già vista e rivista.
David Coverdale, leader incontrastato della situazione, è un sessantenne in ottimo “stato di conservazione” estetica, che però “gioca” un po’ troppo a fare il “giovane stallone”, finendo con l’apparire leggermente “ridicolo” nei continui ammiccamenti sessuali e nei “palpamenti” del “pacco”, quando poi la sua voce sulle note alte arriva al limite dello strillo e ha un’autonomia di “funzionamento” davvero limitata, tanto che deve essere continuamente supportata dai cori dei suoi musicisti e da lunghi momenti di pausa occupati da solos francamente ridondanti.
In definitiva, “Steal your heart away”, “Forevermore”, “Love will set you free” e “My evil ways”, pur essendo ottimi frammenti di tipico hard-rock blues “all’americana” non possono in alcun modo offuscare “roba” come "Give me all your love”, “Love ain't no stranger”, “Is this love”, “Fool for your lovin'”, “Here I go again” o l’immortale “Still of the night”, neanche se la loro esecuzione è inficiata da una prestazione vocale non all’altezza della situazione. Insomma, David, non è facile credere che questi, artisticamente parlando, siano “truly the best years of your life …”, come canti nell’opener di questo concerto …
Affidandosi ad un’analisi più “affettiva”, però, le cose cambiano decisamente di prospettiva … è innegabile che la laringe di Coverdale, alla prova live, sveli impietosamente qualche importante limite d’estensione, ma il calore che l’ha resa così emozionante non è per nulla scomparso, anche se un po’ soffocato dagli stridenti tentativi di raggiungere le frequenze sonore più elevate.
Il suo atteggiamento sul palco è quello di sempre, gigionesco e ammiccante, così come le frasi con cui tenta di arruffianarsi il pubblico sono abbastanza ripetitive (“Milano is the city of love …”), ma non c’è ostentazione o eccessiva (stiamo sempre parlando di una grande rockstar!) vanagloria (si schernisce quando sbaglia il nome del nuovo albo ed esprime il proprio apprezzamento per la sua etichetta italiana, la Frontiers) in tale comportamento … Lui è semplicemente questo, carisma, attitudine e istrionismo simpaticamente kitsch, proprio come la musica dei Whitesnake è un concentrato di spettacolari stereotipi.
Gli assolo sono effettivamente un po’ pleonastici, e probabilmente sono funzionali al riposo delle debilitate corde vocali del vocalist, ma quando si hanno in “squadra” due chitarristi come Doug Aldrich e Reb Beach e un solido batterista come Brian Tichy, anche la scelta di concedere loro dei momenti di gloria personale non è a priori particolarmente disdicevole, allineandosi al classico “copione” dei concerti rock.
In realtà, in entrambi i casi i risultati non si sono rivelati particolarmente travolgenti (il “Guitar duel” è parso poco efficace e Tichy ha esagerato un po’ in manierismo “ad effetto” … e poi non mi è piaciuto molto lo scimmiottamento Aldridge-iano con il solo a “mani nude”), ma il resto dell’esibizione è stato sicuramente di buonissimo livello, con i brani nuovi che appaiono una credibile prosecuzione del percorso intrapreso dalla band con il platinato “1987”: le torride “Steal your heart away” e “My evil ways”, la bellissima “Forevermore” (Coverdale “chiama” in italiano l’ingresso sul palco dello sgabello che userà Aldrich durante la porzione acustica del brano utilizzando un improbabile “mobilia”!), e ancora la vibrante “Love will set you free”, non sfigurano per niente al cospetto dei classici del gruppo, ovviamente accolti in maniera più benevola ed entusiasta da un pubblico per la maggioranza evidentemente più propenso al sentimento che non al raziocinio.
Per quanto mi riguarda, la “matematica” non mi è mai piaciuta e credo sia chiaro da che parte sto … i “best years” saranno passati, ma c’è ancora tanta “anima” in questo attempato e ancora infervorato signore inglese …

Setlist:
01. Best Years
02. Give Me All Your Love
03. Love Ain't No Stranger
04. Is This Love
05. Steal Your Heart Away
06. Forevermore
07. Love Will Set You Free
08. Guitar Duel
09. My Evil Ways
10. Slide It In (snippet) / Fool For Your Lovin'
11. Here I Go Again
12. Still Of The Night

Marco Aimasso

Judas Priest

Welcome to the home of British Metal

Ecco che il Gods arriva al suo culmine: salgono sul palco i Judas "ultimo Tour?Eddai scherzavo!" Priest che mostrano immediatamente una forma smagliante e sopratutto si propongono con una setlist eccezionale, andando a ripercorre la propria carriera.
Certo, all'appello manca KK Downing, ma il suo sostituto Richie Faulkner riesce a non farne sentire la mancanza, monopolizzando gli assoli e dividendosi il fronte palco e la scena con Rob Halford, mentre Glen Tipton si tiene un po' più defilato ed addirittura Ian Hill sembra avere i piedi inchiodati alle assi del palco... unico giustificato è uno Scott Travis costretto sul seggiolino del suo drum kit che tuttavia percuote senza risparmio e senza negarsi un po' di scenografia.

Si parte subito facendo fuoco e fiamme con "Rapid Fire", doppiata poi dall'immancabile - ed emblematica per la serata - "Metal Gods". Da qui in avanti è un tripudio di quei classici alternati a brani più recenti che trovate riepilogati nella setlist sotto riportata, con ogni brano tratteggiato dalle immagini proiettate a fondo palco ed accompagnate da un largo dispiego di fiamme, fumo e giochi di luce.
L'accoppiata "Beyond the Realms of Death" e "The Sentinel" (per quanto in una versione un po' troppo painkilleriana) vale da sola per l'intero Gods, ma oltre le immancabili "Breaking the Law" (con Halford che lascia il compito di cantarla al solo pubblico), "Hell Bent For Leather" (con l'immancabile ingresso di Halford su una Harley Davidson), "Painkiller", "You've Got Another Thing Comin'", ecco che lasciano il segno pure le meno scontate "Starbreaker" o "Night Crawler".

Al di la di una scaletta volutamente autocelebrativa, i Priest di stasera non vivacchiano solo sul loro passato, ma si rendono autori di una prestazione energica, coinvolgente e trascinante, alla quale il pubblico ha risposto con entusiasmo, meritandosi un ultimo bis quando già stava iniziando a sfollare, con Halford che prima ha richiamato tutti con uno "STOP" e poi ha dato il via a "Living After Midnight", ennesimo classico (ma che personalmente non ho mai apprezzato più di tanto) che ha messo il sugello all'edizione 2011 del Gods of Metal.

Appuntamento al prossimo anno...

Setlist:
01. Intro - War Pigs
02. Rapid Fire
03. Metal Gods
04. Heading to the highway
05. Judas Rising
06. Starbreaker
07. Victim of Changes
08. Never Satisfied
09. Diamonds & Rust
10. Prophecy
11. Night Crawler
12. Turbo Lover
13. Beyond the Realms of Death
14. The Sentinel
15. Blood Red Skies
16. The Green Manalishi
17. Breaking the Law
18. Painkiller

Encore
19. The Hellion/Electric Eye

Encore 2
20. Hell Bent for Leather
21. You've Got Another Thing Comin'

Encore 3
22. Living After Midnight

Sergio Rapetti
Report a cura di Sergio 'Ermo' Rapetti

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 01 lug 2011 alle 13:28

Bravi ragazzi! Good Job!

Inserito il 30 giu 2011 alle 12:09

Minchia che scaletta i Mr Big, una bomba! Comunque, col tempo che avevano, ci hanno buttato dentro 15 pezzi, i Whitesnake solo 12. Sono davvero troppo poche per 1 ora e mezza di concerto. Va bene tutto, ma se Dave dal vivo non ce la fa più è bene che smetta. Dischi come Forevermore sono la prova che qualcosina da dire ce l'ha ancora, ma nessuno lo obbliga a fare i tour.

Inserito il 30 giu 2011 alle 03:37

oddio di nuovo "living after midnight" in chiusura! ahahah bastaaaa :D