Copertina 7

Info

Anno di uscita:2020
Durata:52 min.
Etichetta:earMUSIC
Distribuzione:Sony Music

Tracklist

  1. THROW MY BONES
  2. DROP THE WEAPON
  3. WE'RE ALL THE SAME IN THE DARK
  4. NOTHING ATA ALL
  5. NO NEED TO SHOUT
  6. STEP BY STEP
  7. WHAT THE WHAT
  8. THE LONG WAY ROUND
  9. THE POWER OF THE MOON
  10. REMISSION POSSIBLE
  11. MAN ALIVE
  12. AND THE ANDRESS
  13. DANCING IN MY SLEEP

Line up

  • Ian Gillan: vocals
  • Steve Morse: guitars
  • Don Airey: keyboards
  • Roger Glover: bass
  • Ian Paice: drums

Voto medio utenti

Prima di iniziare la disamina di “Whoosh!”, ventunesimo album in studio dei Deep Purple, credo siano necessarie un paio di precisazioni. Già da qualche mese, infatti, la band aveva rilasciato dei singoli che davano una idea di massima di cosa avremmo successivamente trovato nel disco. Nell’ordine: “Throw my bones”, “Man alive” e “Nothing at all”, sicuramente tre brani differenti tra loro, ma che lasciavano intuire la strada intrapresa dai nostri, sulla falsariga di quanto proposto tre anni fa con “Infinite”, pur se con qualche differenza sostanziale. Dopo aver ascoltato i tre singoli, ho letto diverse dichiarazioni in rete. Molti erano indignati perché a loro dire la band ha perso il suo piglio hard rock, e nei commenti tiravano in ballo “In rock”, “Machine head” o “Burn”. Ora, dopo aver letto dichiarazioni del genere, due sono le considerazioni che mi sono balzate in mente: o i soggetti in questione conoscono solo quei tre dischi della band, o negli ultimi 25 anni sono vissuti su Marte, visto che è già da molto che i nostri hanno intrapreso una strada che di hard ha più che altro l’approccio e le intenzioni, ma che nei fatti si snoda su sonorità molto più ricercate e di classe, lasciando a pezzi sparsi qua e là il compito di ricordare a tutti chi è che l’ha inventato davvero l’hard rock. L’ultimo album veramente più robusto è stato “Bananas”, ma stiamo parlando del 2003.

Da “Rapture of the deep” in poi la band ha reso le sue composizioni sempre più raffinate e dinamiche. Qualcuno ha parlato addirittura di prog, anche se io mi limiterei ad usare questo termine solo per gli arrangiamenti e le fughe di Morse e Airey e per gli immancabili e caratteristici stacchi che da sempre la band utilizza per dare dinamicità ai propri brani. Insomma, non stiamo parlando dei King Crimson!

Se proprio vogliamo andare ad individuare un tratto peculiare del nuovo corso della band, io parlerei della voce di Gillan. Mi sembra superfluo tirare in ballo le sue performance degli anni ’70, d’altra parte già da “Perfect strangers” in poi le sue prestazioni non erano più quelle infuocate di “Made in Japan”. Semplicemente, resosi conto di non poter più spingere oltre un certo limite, si è letteralmente reinventato, andando a colmare le lacune dovute all’età con tanto mestiere e tanta ironia. In “Infinite”, invece, ha sviluppato delle melodie vocali molto malinconiche, che durante i primi ascolti mi hanno lasciato un po’ basito ed hanno contribuito ad accrescere quel senso di nostalgia che si percepisce durante l’ascolto dell’album. Beh, se possibile, in questo nuovo lavoro questo aspetto è stato ulteriormente accentuato, ed è forse l’elemento più destabilizzante di tutto l’album. Appare chiaro, però, che di scelta vera e propria si tratta, e non di incapacità vocale, come sottolineato da qualcuno, perché basta ascoltare brani più corposi come “No need to shout”, “What the what”, "Drop the weapon" o “The long way round” per rendersene conto. Ovviamente nessuno può avere idea del perché di questa scelta, ma quest’è…

Ultima considerazione, non da poco, direi. Stiamo parlando di signori che, a parte Steve Morse, si assestano tra i 70 e i 75 anni, non di pischelletti rampanti. Vi aspettate che a quell’età si mettano a comporre una nuova “[I]Speed king” o una nuova “Space trucking”? Ma anche no. E a quanti di voi se ne escono con: “allora farebbero bene a ritirarsi” io rispondo: “e perché mai se ancora riescono a tirar fuori dischi di classe immane e a rompere i culi dal vivo”? Basterebbe semplicemente fare pace col cervello e capire che fin dall’ingresso di Morse il loro sound ha iniziato piano piano a mutare, lasciando inalterati i trade mark che li hanno sempre contraddistinti e di cui ho accennato prima, ma dirigendo le composizioni verso nuovi lidi, fino ad allora inesplorati dalla band.

Per cui, fatte le dovute premesse, com’è questo nuovo “Whoosh!”? Togliamoci subito il dente, e diciamo che è leggermente inferiore ad “Infinite”, il che non significa che è brutto, ma che essendo quest’ultimo un album veramente di altissimo livello, sarebbe stato incredibile se fossero riusciti addirittura a superarsi, fermo restando che pur uscendo oggi giorno ottimi album di nuove leve, difficilmente queste ultime riusciranno a raggiungere i livelli dei Deep Purple, anche quando cacciano un album che non è perfetto ma è sicuramente al di sopra della media e che, come i loro ultimi lavori, sono certo crescerà via via con gli ascolti. Il difetto più grande, a mio parere, è una certa disomogeneità dei brani. Si passa da quelli più rockeggianti ad altri in cui sembra che manchi la spinta giusta per farli decollare, e questo alla lunga influisce sul giudizio finale.

Per il resto, dal punto di vista puramente musicale, visto che delle vocals abbiamo già parlato, ritroviamo tutto quello che i Deep Purple sono da 25 anni a questa parte: riffoni, fraseggi e assoli alieni di Morse, Paice e Glover che vanno spediti e rocciosi come un vecchio treno a vapore, e Airey che ricama, riempie, rifinisce, e duella con Steve, e non solo, perché in più di un’occasione ha ritirato fuori alla grande il vecchio, acido e ruggente Hammond, e questo sì che sa tanto di anni ’70!

Personale rammarico per “Remission possible”, uno strumentale che parte alla grande con un incedere possente e cupo, e di nuovo l’Hammond a portarci indietro negli anni prima del solito duello con la chitarra, ma che poi si spegne troppo velocemente. Avrei preferito che lo avessero sviluppato maggiormente, perché ricco di potenzialità. Mi sono rifatto le orecchie, però, con il remake di “And the address”, riproposta in maniera fresca e spigliata. Dei tre singoli è inutile parlare, ormai tutti voi avete avuto modo di ascoltarli ed assimilarli, invece vorrei menzionare tre brani che racchiudono altrettanti stati d’animo della band: la spensieratezza rock and roll di “What the what”, la voglia di sperimentare nuove soluzioni di “Step by step”, anomala nel suo incedere sornione ma ricca di arrangiamenti sopraffini, e la voglia di stare al passo coi tempi di “Dancing in my sleep”, un pezzo anomalo per i Deep Purple, ma che nella sua modernità racchiude tutta a libertà di cui gode il gruppo oggi giorno.

Da super mega fan della band avrei preferito che il loro canto del cigno fosse stato “Infinite”, già lodato in abbondanza. Ma se conosco bene i miei beniamini, vi dico che, salvo eventi luttuosi che tutti ci auguriamo non arrivino, questo “Whoosh!” non sarà l’album con il quale si congederanno dal mondo della musica, anche se il ritorno del logo del debut album può far pensare il contrario, una sorta di chiusura del cerchio. Però, persone che hanno passato più di cinquant’anni sui palchi di tutto il mondo e che riescono, nonostante l’età, a rimettersi continuamente in gioco e a produrre ancora musica di qualità, secondo me non si fermeranno certo qui, soprattutto quando si ha la consapevolezza di poter fare assolutamente ciò di cui si ha voglia, godendo di una libertà artistica che solo chi non ha più nulla da dimostrare possiede. Lunga vita ai Deep Purple!
Recensione a cura di Roberto Alfieri

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