LETTERA AI MIEI CREATORIDetesto i lunghi preamboli, dunque vado subito al sodo: ero molto, molto arrabbiato con voi.
Tanto arrabbiato che non ho dovuto compiere il minimo sforzo per stamparmi in faccia quell’espressione truce. Già: a muovere tendini e muscoli del mio grazioso viso da non-morto è stata la frustrazione di chi si era abituato troppo bene.
Dopo aver trascorso gli ultimi trent’anni in giro per le location più assurde -lo spazio profondo ed il party grottesco alla
Eyes Wide Shut le mie favorite, anche se le relative copertine avevano il fascino di un tricheco con indosso un completo in lattice-, mi presento tutto baldanzoso, pronto per un nuovo viaggio… e voi mi fate accomodare in uno stanzino angusto, buio, senza nemmeno, che so, un neonato preveggente, un coltello o una pistola futuristica con cui gingillarmi.
Un autentico colpo basso, lasciatevelo dire.
E vogliamo parlare del trucco?
Quelle strisce bianche lungo il mio delicato visino si sono rivelate una vera tortura, anche se, per fortuna, le irritazioni cutanee mi sono precluse. Uno dei pochi vantaggi di esser zombie, presumo.
La precedente collaborazione con quel tale,
Mark Wilkinson, si era rivelata godibile: mi avevano ricoperto di vimini e dato fuoco davanti a una folla urlante. Bello! Stavolta invece… Lasciamo perdere, altrimenti mi tornano gli istinti omicidi di quando ero giovane.
Però…
Sto invecchiando (e per chi è già defunto suona come una beffa, ve l’assicuro), e a voi non riesco a tenere il muso troppo a lungo.
Quindi mi tocca ammetterlo: la copertina, alla fin fine, non è malaccio. Tanto minimale quanto efficace, e trovo il livello di dettaglio della mia pelle sbalorditivo.
Non solo: vi siete fatti perdonare con un nuovo videogioco che mi vede protagonista (me lo dovevate: il precedente,
Ed Hunter, faceva schifo anzichenò). Peccato solo sia difficile come i
coin-up anni ’80, quelli che ti svuotavano le tasche di tutte le monetine in pochi minuti e, nel contempo, ti riempivano bocca e anima delle più turpi bestemmie dopo esser morto per la ventesima volta nello stesso punto.
Infine… beh, infine ho ascoltato
The Book of Souls.
E di colpo vi ho perdonato completamente.
CONSIDERAZIONI SUL VOSTRO NUOVO ALBUMVoi lo sapete meglio di chiunque altro (fatta eccezione per le mie vittime): ero un tipo piuttosto impulsivo. Capite bene che, per uno zombie assetato di sangue che si aggira per i sobborghi più malfamati di
Londra, non è stato semplice metabolizzare la vostra svolta musicale prolisso-progressiva.
Ma il tempo passa, i non-morti evolvono (seppur a fatica) e i gusti cambiano. Ora, pensate un po’, quasi quasi preferisco gli
Iron ultima versione!
Ve lo scrivo con la massima onestà intellettuale: con
The Book of Souls siete riusciti a trasporre in note tutto, ma proprio tutto, quello che avrei desiderato da un vostro disco.
Personalmente lo vedo come una sorta di summa di tutte le vostre qualità, al netto dei difetti che affliggevano alcune vostre composizioni (chorus semplicistici, strutture ripetitive, arpeggi in eccesso… insomma, ci siamo capiti). È denso ma non pesante, complesso ma non astruso, ricco di idee ma non dispersivo, lunghissimo ma mai noioso…
Soprattutto: è un disco coraggioso, in cui avete riversato tutte le vostre idee e la vostra creatività, senza curarvi nemmeno per un secondo che potesse suonare poco
Maiden. E ciononostante suona terribilmente, inequivocabilmente
Maiden.
DIFETTUCCIBeh, sono pur sempre un inguaribile brontolone, non avrete mica sperato che avessi solo lodi in serbo per voi?
1) Proprio volendo esser gentile, parlerò di auto-citazionismo e non di auto-plagio: suona più delicato, no?
Comunque sia a me non la fate, vi seguo da troppo tempo:
- l’attacco di
Shadows of the Valley è sputato quello di
Wasted Years, giusto un po’ più lento. Ah, già che ci sono: la linea vocale della strofa ricorda da vicino quella del chorus di
Fallen Angel;
- in giro per l’album ci sono almeno un paio di citazioni (sempre per esser politicamente corretti) di
The Legacy;
- una parte di porzione strumentale della title track rimanda non poco a
Losfer Words.
2)
When The River Runs Deep è caruccia, ma puzza di filler lontano un miglio ed ha un chorus strambo. Va ricordato, per amor di verità, che anche i vostri super-classici denunciavano qualche brano sottotono (
Gangland,
Quest for Fire e
The Duellist sono lì da sentire…), quindi non si tratta di un problema insormontabile.
3)
Speed of Light possiede un gran riff, trovo adorabile il campanaccio di
Nicko, ma sul tessuto strumentale è stata cucita una linea vocale -mi riferisco in particolare al bridge- che c’entra quanto un unno ad un corso di punto croce.
Come singolo apripista ci può comunque stare, anche se io avrei optato per
Death or Glory: schiacciasassi, trascinante, senza fronzoli e dotata di un bridge straordinario (ancor meglio del chorus, per dirla tutta). Io la valuterei seriamente per una riproposizione in sede live; voi fate quel che volete, tanto so che non ascoltate mai i miei consigli.
4) La produzione, tutto sommato, non mi dispiace: garantisce compattezza all’amalgama, donando nel contempo grande possanza alle chitarre. Ciò premesso, bisogna anche evidenziare che la nitidezza non si assesta su livelli altissimi.
Resto convinto che la scelta di avvalersi -e poi di fidelizzare-
Kevin Shirley non si sia rivelata sbagliata:
Caveman è un buon
producer, e un tipo davvero simpatico. Tuttavia, possiede un difetto: non riesce ad opporsi al volere di
Steve (difetto che lo accomuna ad ogni altro essere umano sulla faccia della Terra, a voler ben vedere).
Dance of Death, per dire, avrebbe avuto un gran bisogno di una correzione nel processo di mastering, e
Kevin lo sapeva bene. Ma
Steve voleva rimanesse tutto com’era, e così è stato -figurarsi-.
Risultato: suono bislacco della batteria di
Nicko, volumi sballati, orchestrazioni e synth troppo invadenti (a proposito: complimenti per aver corretto il tiro! Anche in
The Book of Souls ne avete fatto ampio uso, ma dimostrando maggior gusto e misura rispetto al passato).
E vogliam parlare di
The Final Frontier?
Un mezzo disastro: suoni mosci, chitarre graffianti quanto un orsacchiotto di peluche, errori tecnici grossolani (la batteria pastrocchiata sull’intro della title track, l’attacco strumentale di
Isle of Avalon e la linea vocale del ritornello di
Mother of Mercy tagliate male…).
Qui, per fortuna, siamo ai livelli più che discreti di
A Matter of Life and Death, giusto un gradino sotto
Brave New World (quel disco sì che aveva una produzione coi fiocchi!).
Volete sapere cosa mi ha colpito maggiormente dei suoni di
The Book of Souls?
Ecco qui: per la prima volta, il basso tiranneggia solo a tratti, e non si macchia di bullismo sugli altri strumenti dal primo all’ultimo minuto come nelle release precedenti.
D’altra parte, io vi conosco meglio delle mie tasche, tutti e sei. Quindi penso di conoscere, mio caro
Steve, i motivi di questa scelta…
STEVENon illuderti: per me rimani il bassista più cocciuto, testone e caparbio di sempre. Però, a questo giro sarebbe scorretto non riconoscerti una importante maturazione: per la prima volta hai deciso di fidarti davvero degli altri, senza per forza filtrare, modificare, mettere il becco, steve-izzare ogni cosa (come diceva giustamente il grande
Rod Smallwood nel documentario
Flight 666).
Un po’ stai invecchiando anche tu, nonostante la tua capigliatura si ostini a voler dimostrare il contrario. Poi so che il 2014 è stato un brutto anno per te, pieno di lutti familiari e distrazioni esterne.
Sai che ti dico? Non tutti i mali vengono per nuocere. Almeno così hai potuto investire ogni stilla della tua creatività e perizia nell’immancabile pezzone epico a tua esclusiva firma:
The Red and the Black.
Brano straordinario, non ci sono dubbi. Ci mette un attimo a trovare la strada (nei primi due minuti sembra indecisa, in bilico tra
Blood on the World’s Hands,
Mother Russia e
The Rime of the Ancient Mariner), ma una volta partita diventa inarrestabile.
Un autentico tour de force, concepito per far sfracelli dal vivo (quei coretti galeotti…), con una coda strumentale capace di snocciolare una serie apparentemente infinita di melodie da pelle d'oca -e variazioni sul tema- sufficienti per un album intero, tutte incastrate alla perfezione l’una con l’altra. Un prodigio, ma da un geniaccio come te me lo sarei dovuto aspettare.
Quindi gioisci pure, caro
‘Arry: hai firmato uno dei gioielli più fulgidi dell’intero platter, e una delle tue composizioni solitarie più riuscite degli ultimi tempi (per quanto mi riguarda, ancor meglio di
When the Wild Wind Blows e
For the Greater Good of God).
Certo:
The Book of Souls non è una “tua” creatura come lo fu, ad esempio,
The X Factor (sottovalutatissimo, tra l’altro). Ma è una creatura degli
Iron Maiden. Di tutti e sei, assieme, come mai prima d’ora.
E, se ti conosco come credo, sono convinto che la cosa non ti dispiaccia. Anzi.
Non solo: hai fatto bene a concentrarti sui testi. A questo giro ti sono riusciti davvero bene!
Tanto per esser franchi: nelle enciclopedie rock del futuro non contenderai a
Bob Dylan lo scettro di miglior lyricist della storia, questo no. Nondimeno, stavolta sei finalmente riuscito a limitare l'utilizzo dei vocaboli "
world" e "
dream" (i tuoi tormentoni, riconoscilo), ed hai saputo convogliare la sensibilità amara e malinconica che ti accompagna dai tempi della separazione da
Lorraine (nemmeno la scomparsa di tuo padre ha aiutato, lo so bene), in
Tears of a Clown.
Quando ho capito che si trattava di una canzone dedicata all’attore
Robin Williams, suicidatosi poche settimane prima che vi ritrovaste nei
Guillaume Tell Studios di
Parigi per incidere l’album, mi sono spaventato non poco -e non è facile spaventarmi-. Temevo un testo stucchevole e pacchiano, invece tutt’altro. Meno male: non ti avrei mai perdonato una commercialata stile
Candle in the Wind.
Ah, fra l’altro gran canzone (
Tears of a Clown, non
Candle in The Wind), e splendido assolo di
Adrian.
A proposito…
ADRIANVuoi che ti dica la verità? Non mi andavi a genio.
Troppo meticoloso, puntiglioso, sempre alla ricerca dell’accordatura perfetta, del suono giusto, dell’effetto migliore… Un maledetto perfezionista petulante, ecco come ti avrei definito sino a qualche tempo fa!
Poi ho imparato ad apprezzare il tuo stile chitarristico unico, così raffinato, distinguibile tra mille e lontano dall'esibizionismo fine a se stesso di tecnica e velocità che affligge tanti tuoi colleghi. Ammiro anche la tua duttilità compositiva, che ormai ti permette di passare con agio dai classici, immediati brani
rock oriented a quelli più complessi e sfaccettati.
Il tuo peso specifico in seno alla band, dal rientro del 1998, è lievitato di anno in anno, tanto che oggi godi di una importanza e di una considerazione che non riscontravo dai tempi di
Somewhere in Time -l’album della tua definitiva consacrazione-.
Non sei ancora stato capace di convincere
Steve ad arricchire gli arrangiamenti e a rendere i suoni più rotondi, questo no, ma chissà che al prossimo giro non ti riesca il miracolo…
D’altra parte, basta leggere i credits dei brani per capire quanto gli altri cinque contino su di te. E fanno bene, anche se se rimani fin troppo precisino per i miei gusti.
Tutto il contrario del mio prediletto paffutello…
DAVESei il solito, adorabile pigrone.
Vuoi sapere cosa credo?
Che se solo ne avessi voglia, potresti essere un ottimo compositore, oltre che un fantastico chitarrista. Rimanendo sull’ultimo periodo:
The Man Who Would Be King sfoggiava una porzione strumentale di prim’ordine -peccato solo per il mixing infelice-;
The Reincarnation of Benjamin Breeg, dal canto suo, possedeva un riffing spettacolare e un feeling mistico impagabile.
Lo stesso feeling mistico che avvolge la
The Man of Sorrows qui presente (ne approfitto per una chiosa: smettetela di riciclare i titoli delle canzoni! Questo l’aveva già utilizzato
Bruce nel lontano ’97, e anche
Speed of Light ha una sorellina omonima di proprietà del povero
Blaze).
Traccia dai mille volti, cangiante e colma di fascino: un’autentica sorpresa, una gemma nascosta tra i colossi di lunga durata, ma non per questo meno preziosa.
Il fatto, caro
Davey, è che di voglia ne hai ben poca, sbaglio?
A te basta comporre qualcosina giusto per non far brutta figura, presentarti in studio col tuo sorriso buono stampato sulla faccia, piazzare qualche assolo micidiale senza colpo ferire, divertirti in tour e, al termine di tutto, tornare a goderti la vita a casa tua, alle
Hawaii.
Se non hai capito tutto della vita tu, non so davvero chi l’abbia mai fatto.
JANICKAh, caro
Janick, l’eterno sottovalutato…
La gente è ancora lì, ad affannarsi a sostenere che hai rovinato i
Maiden, che i tuoi assoli folli ed anarchici (proprio come te, non trovi?) non c’entrano nulla col sound della
Vergine, che dal vivo fai solo casino… e non si accorgono che ormai la tua sei corde è un elemento fondamentale ed insostituibile nell’economia dei nuovi brani, né si premurano di constatare che molti dei pezzi migliori, da quindici anni a questa parte, portano la tua firma.
Il nuovo album non fa che confermare il trend positivo.
La
title track, ancora una volta, è un tuo capolavoro personale: traboccante di carica evocativa, gravida di arcana solennità, percorsa da un minaccioso feeling di tragedia imminente e da un’atmosfera a metà tra
Powerslave e
Dance of Death (le canzoni).
Solo un consiglio, amico mio: l’accorgimento dell’arpeggio acustico posto ad inizio brano inizia a diventare logoro.
The Legacy,
The Talisman,
The Book of Souls: tutti belli, ok, ma anche tutti troppo simili, accidenti a te!
Comunque, ai miei occhi, rimarrai sempre un grande.
NICKOPremessa doverosa: per me con quel naso, quella faccia e quella risata, hai vinto a prescindere. Se poi, per sovrappiù, mi regali una prova come questa, si può addirittura parlare di trionfo.
Ho trovato onestamente monumentale la tua prestazione: più dinamico rispetto a
The Final Frontier, ti sei dimostrato sempre a tuo agio nei momenti intricati e tecnicamente impegnativi (un esempio? Il tuo encomiabile lavoro su
Empire of the Clouds), riuscendo al tempo stesso a recuperare il groove dimostrato in occasione di
A Matter of Life and Death.
Alcuni
drumfills, poi, sono un’autentica goduria per le orecchie, ma dal quel punto di vista non hai mai avuto niente da invidiare a nessuno.
Mi rendo conto che cominci ad avere una certa età, che il tuo modo, così dispendioso, di affrontare lo strumento esige sempre più il suo tributo in termini di stanchezza, che il tuo ristorante di costine a
Miami va alla grande e che armeggiare con la mazza da golf ti piace quasi quanto impugnare le bacchette.
Ma fidati di me: finché tieni botta continua con queste ultime. Ne vale la pena.
BRUCEAllora, iniziamo con una confessione: anche tu, come
Adrian, mi eri antipatico!
Già il fatto che sapessi modulare in quel modo la tua voce, per il sottoscritto, capace solo emettere grugniti inarticolati, era fonte di inesauribile invidia. In secondo luogo, non mi andavano giù gli incessanti complimenti per il fatto di essere poliedrico, tuttofare, instancabile pilota, schermidore, presentatore radio, sceneggiatore bla bla bla.
E io? Ho visitato l’antico
Egitto, preso a pugni il
Diavolo in persona, viaggiato nel tempo… invece niente, tutti lì a incensare il factotum
Dickinson.
Insopportabile.
I miei sentimenti sono cambiati di colpo quando ho appreso del tuo tumore: solo allora ho realizzato quanto fossi affezionato a te.
In fondo, avrei dovuto sapere sin dall’inizio che una banale malattia non poteva certo fermare l’inarrestabile
Air Raid Siren, ma la verità è che ho accolto la notizia della tua completa guarigione con un senso di sollievo mai provato prima.
Anche per questo, ascoltarti cantare su
The Book of Souls mi dona ancor più piacere.
Se proprio volessi far trionfare la sincerità, potrei timidamente rilevare che, qua e là, arranchi un po’: certi passaggi strozzati su
The Great Unknown, giusto per citare un caso, dimostrano che l’onnipotenza vocale dei tempi di
Piece of Mind non c’è più.
E vorrei ben vedere: son passati quasi trentacinque anni!
Va anche detto che oggi sei un cantante più completo di allora e più espressivo sui toni medio-bassi, senza contare il prodigioso apporto compositivo.
L’album, di fatto, si apre e si chiude con pezzi tuoi. E che pezzi.
La opener,
If Eternity Should Fail, era stata concepita per il tuo futuro album solista. Fra l’altro si sente: musicalmente sembra provenire dal meraviglioso
The Chemical Wedding, mentre la parte finale ricorda il breve interludio
Toltec 7 Arrival (da
Accident of Birth).
Come successo in occasione della vecchia
Bring Your Daughter to the Slaughter, però, le bramose (nonché velocissime, come noto) dita di
Steve ti hanno sfilato il brano da sotto il naso, inserendolo di forza in
The Book of Souls.
Come dargli torto? È una bomba, con quel maestoso ritornello che ti si infila senza requie nella crapa e quel cambio di ritmo irresistibile al giro di boa.
Il tuo autentico capolavoro, però, resta la conclusiva
Empire of the Clouds.
Ci hai lavorato un mese intero su quel pianoforte -anche se, non offenderti, sei più bravo a cantare-, l’hai perfezionata sempre più sino a renderla una sorta di immensa rock opera, che dura diciotto minuti ma non vorresti finisse mai tanto è commovente, poetica, drammatica.
Lo ammetto: fossi stato dotato degli appositi dotti, un paio di lacrimucce mi sarebbero scese.
CONSIDERAZIONI FINALIMi sono dilungato troppo, lo so, ma da quando sono stato dotato di corpo (ricorderete senz’altro che la mia prima incarnazione prevedeva solo la testa) ho deciso che l’avrei utilizzato il più possibile, dita incluse.
Oltre a ciò, non è che in questi giorni abbia granché da fare. La verità? Non vedo l’ora di partire con voi per il tour mondiale del 2016, credo ci sarà davvero da divertirsi. Salire sul palco è sempre un’emozione indescrivibile, anche dopo quarant’anni di concerti.
La domanda è: quanto durerà ancora?
Dipende da voi.
Io francamente non lo so, e nemmeno voglio pensarci. Quello che so, invece, è che se
The Book of Souls dovesse rivelarsi l’ultimo album della
Vergine, beh, sarebbe la conclusione più gloriosa possibile.
Anche se sto uscendo dal personaggio feroce e maligno che dovrei incarnare, ci tengo a dirvi due cose.
Sono orgoglioso di voi, e vi voglio bene.
Per sempre vostro
EdP.S.: vi prego di non far leggere a nessuno questa lettera, è troppo sdolcinata.