Dopo le scorribande soliste e non dei due leader
Tremonti e
Kennedy, ecco tornare gli
Alter Bridge.
Un ritorno aperto a solarità, positività e melodia; la cover dice già tutto con quella figura femminile alata che sta per librarsi nell’azzurro cielo.
Difatti i brani sono quasi tutti pervasi di una rabbia “serena”; il dittico “
Woluldn’t you rather” e “
In the deep”, sono brani rocciosi, ma con aperture melodiche che saltano fuori nel chorus; la band può certamente contare su due cavalli di razza come il riffmaker italoamericano e il biondo singer dalla voce calda e potente.
Ci sono anche brani in odor di Aor come “
Godspeed” dal giro di tastiera ottantiano e inconfondibile; altri brani come “
Native son” e “
Clear horizon” hanno un ritmo killer e trascinante.
Tutto bene dunque? Insomma, non proprio, perché i quattro hanno confezionato un disco dove i filler e i momenti debolucci ci sono e a mio parere troppi.
Perché come giudicare un album di quattordici brani, quattordici per un totale di sessanta e passa minuti dove la maggior parte sono mid tempo; ma non è tutto, spesso ho l’impressione che la ricerca forzata della melodia, del ritornello da cantare a tutti i costi risulti forzato o telefonato.
Forse e non troppo forse, la band ha l’obbiettivo non tanto sbagliato di voler raggiungere un’audience più vasta, dove le sonorità dure non sono la prassi o vengono toccate poco; il voler puntare alla classifica levigando il suono e renderlo potabile ci sta tutto per carità, ma sarà vera gloria?
Citando il sommo
Freak Antoni, ai posters l’ardua sentenza.
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