A volte tornano.
E’ quello che è sorprendentemente accaduto in questo scorcio di fine 2022 ai
Ring Of Fire, glorioso (almeno nelle intenzioni originali) progetto musicale nato dalla mente di
Mark Boals nel lontano 2000 e forse mai sbocciato veramente del tutto, giunto faticosamente (considerando i soli 2 dischi pubblicati negli ultimi 18 anni!) al traguardo del quinto album intitolato
Gravity.
Rispetto al passato, la più grande novità che ha coinvolto la band è da individuare nella line-up, rivoluzionata per 3/5 ed in cui si parla parecchio italiano, complice sicuramente la label della formazione, ovvero la storica
Frontiers Records.
Difatti, eccezion fatta per il fedelissimo e funambolico
Vitalij Kuprij, che ai tempi degli esordi con gli Artension qualcuno soprannominò, a ragione veduta, “il Malmsteen delle tastiere”,
Mark Boals si circonda interamente, per l’occasione, di musicisti tricolore (segno evidente che il metallo italico non ha nulla da invidiare a quello straniero!), che rispondono ai nomi di
Stefano Scola al basso,
Alfonso Mocerino dietro le pelli (già batterista, tra gli altri, di Temperance, Virtual Symmetry, Starbynary e dei sorprendenti Pentesilea Road, che già in
questa sede ho avuto l’onore di recensire), ma soprattutto, ciliegina sulla torta, del grandissimo
Aldo Lonobile dei Secret Sphere (ex-Death SS) alla chitarra.
Cominciando l'analisi di
Gravity, lasciatemi partire, proprio da quest’ultimo aspetto; è curioso notare come la band riesca ad esprimersi cosi bene e a dare finalmente il meglio di sé (come mai aveva fatto negli anni addietro), con la line-up storicamente meno prestigiosa della sua storia (almeno a giudicare dal peso dei suoi nomi), considerando che nei
Ring Of Fire hanno militato degli autentici mostri sacri, del calibro di Tony McAlpine alla chitarra, Virgil Donati alla batteria e dello stesso Timo Tolkki, nelle insolite vesti di bassista.
Spicca particolarmente la brillante prova di
Aldo Lonobile che, in questo nuovo album, aveva l’arduo compito di sostituire proprio McAlpine, e permettetemi di dire (il mio non è solo patriottismo, sia chiaro!) che il musicista piemontese fa davvero un figurone, conferendo al sound dei
Ring Of Fire una maggiore corposità rispetto al passato (lo si può notare in particolar modo in tracce come l’arabeggiante
Storm Of The Pawns che personalmente mi ha ricordato una versione moderna della cover degli Scorpions "The Sails Of Charon", a suo tempo reinterpretata dal “Maestro Yngwie”. o nell’esaltante
21st Century Fate Unknown), rispettando tuttavia le origini neoclassiche dello stile dei Nostri, che riemergono prepotentemente in brani come
Melancholia o
Run For Your Life.
A trasmettere linfa vitale alla nuova fatica discografica della band, contribuiscono indubbiamente anche gli altri due musicisti italiani, autori di una prova lineare e priva di sbavature, mentre
Vitalij Kuprij riesce a dare quell’ulteriore tocco di classe, con le sue tastiere, creando virtuosismi neoclassici e riempiendo le composizioni con delle pennellate barocche di raffinatezza unica, che raggiunge il suo apice nell’elegante ballad
Sky Blue (in cui, ancora una volta,
Aldo Lonobile, fa la sua PORCA FIGURA, scusate il mio solito francesismo!)
Certo, gli immancabili polemici detrattori potranno obiettare che in fondo
Gravity non è altro che la solita minestra riscaldata a base di power melodico a tinte neoclassiche (vero, ma è una minestra che si fa gustare volentieri, anche perché i Nostri la sanno cucinare dannatamente bene!) e che la voce di
Mark Boals, a quasi 64 primavere, non è più in grado di incidere come un tempo, tuttavia il frontman americano è assai abile nel rifugiarsi furbescamente in linee melodiche più adatte al suo attuale timbro, senza che l’intera struttura dei brani venga penalizzata oltremodo.
Non c’è molto altro da aggiungere.
Gravity è un disco che, qualitativamente parlando, si attesta su livelli superiori rispetto ai suoi predecessori perchè a differenza di quanto avvenuto in passato, non si limita semplicemente ad esaltare il tradizionale melodic metal neoclassico, ma ne mostra orgogliosamente i muscoli, grazie a un sound più sostanzioso che, unito alla classe dei musicisti, finisce inevitabilmente per ammaliare il pubblico.