Dalla nebbiosa Inghilterra all'assolata Los Angeles è un attimo. Soprattutto se ti chiami
Judas Priest ed alle spalle hai tre album che hanno catalizzato l'attenzione della sconfinata platea americana. Non è un mistero che, al di là dell'oceano, il quintetto anglosassone, nonostante una carriera decennale scandita da capolavori ossianici come "
Sad Wings Of Destiny", "
Sin After Sin" o "
Stained Class", raggiunga il successo che conta solamente grazie ai capitoli più epidermici ed a presa rapida della loro collezione. Mi riferisco ovviamente a "
British Steel", ma soprattutto a "
Screaming For Vengeance" e "
Defenders Of The Faith", grazie ai quali i Priest iniziano ad attecchire in maniera massiva anche presso il pubblico a stelle e strisce.
Quello europeo, d'altra parte, si è già rivelato terra di fertile conquista. La band arriva ad un bivio, come molti altri pesi massimi di quel periodo: "tradire" i vecchi fans per andare alla scoperta di nuove lande, oppure restare fermi sulla propria posizione col rischio di non riuscire a ripetere i fasti del recente passato? Non so quanto abbia inciso la pressione della loro casa discografica sulla scelta artistica di "
Turbo"; quello che sembra certo, una volta appoggiato sul piatto il 33 giri, è che mai i Judas avevano optato fino ad allora per un sound così "addomesticato". Parlo di "sound", non di canzoni, perché la differenza con uno "Screaming For Vengeance" o un "Defenders Of The Faith" viene sancita per lo più dalla sgargiante produzione (nuovamente ad opera di
Tom Allom) e da una serie di arrangiamenti fino ad allora inediti. In primis, le famose o famigerate "
synth guitars", che mettono in crisi il "metallaro medio": non sto scherzando, ricordo gente letteralmente disperata dopo aver ascoltato per la prima volta "Turbo", roba ai limite delle lacrime per la cocente delusione. In secondo luogo, un approccio molto più prossimo all'hair metal che non alle colate di tungsteno che avevano caratterizzato, in maniera determinante, songs passate ormai alla storia del genere come "
Electric Eye", "
Freewheel Burning" o "
Heavy Duty".
Innegabilmente, il disco segna una forte sterzata verso le invitanti sinfonie delle sirene da classifica, come dimostrano tracce da airplay radiofonico quali la scalciante "
Locked In", con le chitarre sintetizzate che gonfiano il riverbero all'inverosimile, "
Parental Guidance", dal coro più adatto a grattare adolescenziali pruriti ribelli che non a definire i presunti "difensori della fede", oppure "
Private Property", grazie al perfezionamento estetico del noto riff di "
Heading Out To The Highway", ma anche ad un refrain trascinante e perentorio. Al netto del trattamento sonico aggiornato, l'opener "
Turbo Lover" è invece una spedita marcia robotica che non avrebbe affatto sfigurato nei due lavori precedenti, così come "
Out In The Cold" racconta di un gruppo che non ha perso per strada la creatività epica da science-fiction tanto ben espressa nella prima metà degli anni 80. Non mancano purtroppo nemmeno gli episodi frivoli e futili, una su tutte il pop metallizzato di "
Wild Nights, Hot & Crazy Days", ma anche la banalissima "
Rock You All Around The World" non scherza in quanto a recrudescenza di cliché e luoghi comuni. Per fortuna le cose vanno meglio con l'heavy rock monolitico ma funzionale di "
Hot For Love", il cui riff sembra scritto appositamente per permettere a Tipton e Downing di esibirsi nel loro proverbiale "guitar banging" all'unisono. La chiusura viene invece affidata a "
Reckless", sicuramente americaneggiante nell'approccio, ma assai coinvolgente nelle linee melodiche di un Rob Halford esagerato ed elegante al tempo stesso: l'incipit a base di "
no one can stop me now, I'm like a human dynamo" la dice lunga sulla sobrietà del testo eppure, dal punto di vista prettamente musicale, il pezzo mantiene una melodrammaticità di fondo che suggerirebbe ambizioni liriche ben più profonde.
Nonostante il buon materiale ed il proposito dichiarato di ammaliare definitivamente il mercato USA, "Turbo" riesce nel suo target solamente a metà, tanto che, dopo il tour di supporto, i Judas Priest dichiareranno ai quattro venti che l'album successivo avrebbe rappresentato il loro ritorno al metal puro. Parole vere fino ad un certo punto, perché se è vero che "
Ram It Down" (1988) rialzerà il tonnellaggio elettrico generale, la band si porterà appresso alcune caratteristiche dominanti di "Turbo", a partire da quelle drums che puzzano tanto di machine.