A metà degli anni ’90 andava abbastanza di moda mettere il prefisso “symphonic” davanti a tutta una serie di sottogeneri del metal: esperimenti più o meno riusciti come quelli di Emperor, Rage, Therion e, che piaccia o no, dei nostrani Rhapsody, hanno dato il via ad un filone che, tra alti e bassi, è tuttora seguito e (molto) chiacchierato. I
Dimmu Borgir sono tra i portabandiera di quel “Symphonic Black Metal” che conta, tra gli altri, i Cradle of Filth e i già citati Emperor.
“Duri e puri” per l’aspetto e per le tematiche dei testi (Satana e i suoi seguaci, peccati gravi e possibilmente imperdonabili, sofferenze gratuite e indicibili e chi più ne ha più ne metta), in realtà i norvegesi sono molto più accessibili e meno oltranzisti di quanto non vogliano far credere. Il cantato in inglese (a discapito della lingua madre dei precedenti "For All Tid" e "Stormblast"), il nuovo logo (“leggibile” a differenza di tante altre band affini), l’ampio spazio lasciato alle tastiere (con timbriche più vicine alla musica ambient che alla musica estrema) e la produzione curata della Nuclear Blast sono segnali forti dell’ambizione della band di arrivare ben oltre i propri confini nazionali.
E ci riesce. I brani sono quasi tutti a loro modo “classici” nella loro genuinità, dall’iniziale “The Mourning Palace” (con quell’intro tastieristico che tutte le volte mi fa ancora venire i brividi) alla conclusiva “A Succubus in Rapture”, passando per le voci femminili di “The Night Masquerade” e le più note (e canoniche) “Spellbound (By The Devil)”, “In Death’s Embrace” e “Master of Disharmony”. Il mercato reagisce talmente bene che, scaramanticamente, i
Dimmu Borgir daranno ai successivi lavori sempre titoli di tre parole ("Godless Savage Garden", "Death Cult Armageddon", "In Sorte Diaboli"…), tradizione interrotta dall’ultimo "Abrahadabra". L’inizio di una lunga storia e un ascolto obbligato nel suo genere.
A cura di Gabriele Marangoni