Che Lemmy sia un mito non devo certo venire a dirvelo io... una vita intensa, sia musicalmente (con i suoi
Motörhead: 21 album in studio, migliaia di concerti in giro per il mondo, collaborazioni con tutti i grandi nomi del rock…), sia a livello personale (usi ed abusi di droghe e alcol, donne, prigione, e chi più ne ha più ne metta…). Anche lui, però, come tanti suoi illustri colleghi (Ozzy su tutti), inizia a sentire il peso dell’età e subisce l’arrivo dei primi acciacchi. A parte le recenti vicende legate al suo ricovero e all’interruzione della tournée, erano già ormai due-tre anni che dal vivo non rendeva più come una volta… per carità, comunque lo spettacolo lo portava avanti, ma si percepiva pesantemente una certa svogliatezza, e chi ha avuto modo di vedere la band in azione più volte, e soprattutto diversi anni fa, avrà senz’altro notato questa cosa e avrà capito di cosa sto parlando. Il dubbio, quindi, che questa sua svogliatezza si ripercuotesse anche nel nuovo album era più che legittimo, ed è con questa ansia che mi sono apprestato ad ascoltare “Aftershock”.
Dopo aver volutamente evitato i samples girati in rete nei giorni scorsi, inizio l’ascolto e resto subito di stucco con la opener “Heartbreaker”, classica mazzata Motörhead al 100%, grintosa, sudata, ottimo modo di dare inizio alle danze… Beh, se le premesse sono queste, direi che i dubbi iniziali possono beatamente andarsene a quel paese, e a rafforzare questa ipotesi ecco arrivare “Coup de grace”, che sulla falsariga del primo brano continua a rockeggiare alla grande, con un groove pazzesco e una freschezza che non ti aspetti… Così come frizzante risulta “Knife”, un rock ‘n’ roll ruffianissimo che fa ben capire lo stato di forma del trio inglese… E Lemmy? Beh, Lemmy è Lemmy, canta col suo classico timbro roco e strafottente, violenta il suo Rickenbacker a suon di distorsore, e tira avanti la baracca, supportato alla grande da un poderoso (come sempre) Mikkey Dee, e un particolarmente ispirato Phil Campbell, autore di assoli davvero pregevoli, così come di riff che colpiscono nel segno.
È bene chiarire una cosa, a questo punto… Di certo non stiamo ascoltando un capolavoro, per quanto il livello dell’album sia senz’altro alto… Ed è per questo che ora arriva il primo dei quattro brani più nella norma, “Do you believe”, che insieme a “Silence when you speak to me” (un titolo geniale), “Crying shame” e “Keep your powder dry” rappresenta il lato più andante e tranquillo della band. Quattro mid tempo nel classico stile Motörhead, che nulla tolgono e nulla aggiungono al valore del disco. Si tratta, appunto, di quattro intermezzi che brutti non sono, ma di certo non sono neanche a livello degli altri brani.
E a risollevare le sorti, quindi, non sono neanche tanto i pezzi più veloci e rocciosi, come “Death machine”, “Paralyzed”, “End of time” o “Going to Mexico” (evidentemente a Lemmy non era bastata la visita in Brasil, voleva esplorare nuove terre…), che, per quanto validi, restano comunque semplici nella loro struttura e sono stati pensati più che altro per scatenare l’inferno sotto il palco. A farlo, invece, sono tre pezzi abbastanza particolari: “Lost woman blues”, un blues sporchissimo, come dice già il titolo, una sorta di ritorno alle origini per Lemmy e company, come a voler sottolineare, se mai ce ne fosse bisogno, da dove arriva la nostra amata musica, “Queen of the damned”, un punk ‘n’ roll bastardo come solo loro sanno fare, ma soprattutto “Dust and glass”, un lento particolarmente introspettivo, dal sapore fortemente lisergico e seventies.
Insomma, l’album vive di ottimi spunti, di brani decisamente validi, e di altri leggermente meno coinvolgenti. Se paragonato allo splendido “The world is yours” di tre anni fa, davvero freschissimo e ispirato, questo nuovo “Aftershock” per me sta giusto un pelino più in basso, proprio per quest’alternanza di cui ho appena parlato. Resta comunque un buon disco, fotografia reale dell’attuale stato di salute di una delle band più rappresentative del rock e del metal, e si lascia in ogni caso ascoltare anche e soprattutto grazie alla durata media dei brani, sui tre minuti l’uno…
Mi immagino già i soliti commenti dei soliti saccenti: “ma questo disco è uguale a tutti gli altri…”. Mbè? Cosa vi aspettavate dai Motörhead? Che Lemmy a 68 anni suonati iniziasse a sperimentare? Ma per favore… Da lui questo ci aspettiamo e lui questo ci dà, esattamente come altre band ortodosse tipo AC/DC, Black Sabbath, e via dicendo, e a noi sta benissimo così…
Piuttosto, tornando anche ai problemi di salute di Lemmy degli ultimi mesi, la domanda sorge spontanea: sarà il loro ultimo album in studio, o tra un paio d’anni torneranno, incuranti dell’anagrafe, della salute, e di ogni cosa che porterebbe un simpatico settantenne a starsene a casa a giocare coi nipotini? Chi vivrà vedrà, ma sono quasi certo che la storia dei Motörhead non finirà qui…