Dopo i fasti, il clamore, le pressioni e i successi (e anche qualche piccola critica, praticamente inevitabile, quando si sostituisce un maestro della fonazione modulata del calibro di Steve Perry) vissuti con i Journey, è giunto per Steve Augeri il tempo di riflettere sul suo passato e di tornare alle cose “semplici”, alla purezza di una sei corde e dei vecchi vinili di Who, Beatles e Led Zeppelin (come vedremo i più importanti di questa illustre triade, per il “nuovo” percorso artistico del nostro). Sono questi, stando alle dichiarazioni del talentuoso singer americano, i motivi che hanno portato alla riscoperta dei
Tall Stories, la formazione che lo aveva rivelato al “mondo” e che, con il bellissimo disco omonimo del 1991, aveva contribuito alla conquista di quello che probabilmente è da considerare come il microfono più ambito dell’hard melodico.
“Skyscraper” non si “accontenta”, però, di riproporre “in purezza” le sonorità che avevano caratterizzato quel debutto, risultando alla fine come un lavoro ancora una volta genericamente assoggettabile alla categoria dell’AOR illuminato, ma in cui allo stesso tempo molta importanza viene assegnata alla tradizione dell’hard blues, virata talvolta attraverso un’ottica, come dire, vagamente “attualizzata”.
Ecco, come anticipato, che il mitico Dirigibile diventa un riferimento particolarmente significativo per i Tall Stories targati 2009, in brani come “Superman”, “Pictures of summer” e “Clementine” o altresì in una traccia come la Kashmir-esque “Original sin”, dove si possono apprezzare anche lontani echi dei migliori King’s X.
Sul versante maggiormente “adulto”, si segnalano, oltre al soft-number “All of the world”, la gagliardia di “Tomorrow” e “Stay”, mentre “Eternal light” ipnotizza con il suo incedere tribale, la scura e massiccia “River rise” sembra quasi ammiccare al grunge e “No justice” e “You shall be free” riverberano ambiti musicali come il funky (la prima) e il soul/blues autoctono (la seconda, un gioiellino di grande intensità emotiva, sulla scia di Humble Pie e Black Crowes), il tutto orchestrato con dovizia, magnetismo ed imponente carica espressiva ed ispirativa.
Coerenza, dunque, ma anche parecchia cultura “classica”, in questo ritorno da giudicare con un voto piuttosto alto, sia (e soprattutto, direi!) per il suo valore intrinseco, sia per quel pizzico di “coraggio” dimostrato dai suoi autori nell’evitare di sfruttare oltremodo l’autorevole nome dei Journey, realizzandone l’ennesima “fotocopia”.
Sarebbe stata, forse, la scelta più “logica” e sicuramente la più facile … ora, per valutare se tanto “ardimento” sarà adeguatamente ripagato, la parola passa al “mercato”, come sempre sommo giudice dell’annosa questione.
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