L’album dei
Blade of the Ripper potrebbe tranquillamente passare per una ristampa di qualche misconosciuto gruppo primi anni ’80. Invece si tratta di un progetto moderno, ideato da Adam Neal (già con Nashville Pussy, Hookers, ecc.) per dare sfogo al desiderio di un metal grezzo, viscerale ed incontaminato.
Chiaramente è un esercizio nostalgico, senza alcuna ambizione commerciale o trendista. Un tuffo nei primordi metallici, in quel creativo snodo tra “normale” heavy e derivazioni speed/thrash. Non le versioni ultratecniche e sofisticate più recenti, ma la furia distruttiva e grossolana della fase iniziale. Ascoltando frustate ad alta velocità come “Submit to Satan”, “Revenge” o “Baphomet’s call”, con la loro semplice essenza da puro “headbanging”, è facile tornare con la mente ai fulminanti esordi di Metallica, Slayer, Exodus, Voivod, ecc, naturalmente con le debite distanze.
L’archeologia musicale di questa band risulta complessivamente completa, visto che include gran parte dei fondamenti della scuola stilistica. Ad esempio le cadenze rallentate e marziali, stile “marcia dei dannati”, oppure il soffio di isteria anarcoide mutuata dal punk, o ancora le classiche tematiche disturbanti dal satanismo all’horror ai serial killer, usate però in modo più folkloristico che reale, sul modello dei Venom.
Sotto certi aspetti è un lavoro divertente, per chi ama quello specifico periodo musicale. Ma è anche completamente fuori dal suo tempo, visto che rispolvera situazioni assimilate e superate da tre decadi. Questo è il grande limite di un disco che, non potendo rivaleggiare con i classici del passato, finisce per essere qualcosa di anacronistico e fine a sé stesso.
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