Terza fatica per i Canadesi Sea of Green, ancora una volta affidati alle cure dell’esperto produttore Nick Blagona (Deep Purple, Nazareth) ai fini di proseguire nella loro particolare concezione di stoner melodico.
Questa è una formazione lontana dai canoni abituali del settore, laddove altri protagonisti dell’heavy rock tendono a distorcere sempre più il loro sound, ad aumentare il tasso acido della musica, ad imbarbarire le parti vocali, il trio del Canada risponde con uno stile estremamente pulito e moderato, robusto ma tutt’altro che violento, a larghi tratti riconducibile all’indie rock che non allo stoner tradizionale, con una sensibilità melodica e vocale che sin dai loro esordi ha ricordato gli Oasis, da sempre annoverati tra le principali influenze del gruppo.
Dopo il discreto successo di “Time to fly”, le cui canzoni hanno ottenuto alcuni passaggi su MTV e sono state utilizzate come soundtrack di popolari videogames, i Sea of Green erano attesi alla prova della maturità definitiva che li collocasse in pianta stabile ai vertici dell’heavy alternativo.
Impresa riuscita solo in parte. Se è comprensibile la scelta di incrementare la componente melodica nell’intento di ampliare il proprio bacino di utenza allontanandosi sempre più dalla ghettizzazione stoner, e se si notano inoltre segnali di un avvenuta maturazione nel limare le asperità inadatte al progetto di limpidezza musicale, il tutto non è stato sostenuto da un songwriting pienamente efficace, cosa fondamentale se si punta a realizzare un album che privilegia l’atmosfera all’impatto frontale.
Emerge un senso di eccessiva uniformità, una generale piattezza che s’insinua nel corso dell’ascolto. La poca aggressività viene ulteriormente attenuata da sonorità troppo rotonde e scintillanti, i delicati arabeschi psych che caratterizzavano i precedenti lavori sono ridotti al minimo indispensabile, concedendo invece spazio a tentativi di seguire filoni mainstream che lasciano perplessi, vedi la molle “Fantasy sublime” o l’acustica “Unite” con tanto di arrangiamento a base d’archi, ammiccamenti non sufficentemente incisivi ad un pubblico romantico che non ama i sapori forti.
Non si può negare alla band una positiva eleganza nell’interpretare anche i brani maggiormente hard, come “Angry scars”,”Falling deeper”,”Get back” o “Out of my head” con l’intro preso a prestito dai Los Natas, ma resta la forte sensazione di un lavoro indeciso sulla direzione in cui svilupparsi, sospeso a metà tra le intuizioni orecchiabili e le vibrazioni psych senza spingere a fondo in nessuno dei due sensi.
“Chemical vacation” esaurisce il contratto che lega il trio alla The Music Cartel e ciò può significare che non tutte le potenzialità siano state espresse al massimo, riservandole magari per il prossimo album che aprirà una nuova pagina nella carriera dei Canadesi. Un momento di transizione che forse non convincerà del tutto i fans della prima ora, senza garantire in cambio l’allargamento di pubblico auspicato.
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