Sgombriamo immediatamente il campo da ogni dubbio, evitando nel contempo qualsiasi eventuale giro di parole. “All of my days” è un disco che farà la gioia di chi ha amato il migliore Bryan Adams, uno dei grandi notabili di quel rock melodico vivente sulla linea di demarcazione tra il pop e l’AOR.
I suddetti estimatori del biondo rocker canadese non potranno non riconoscere in parecchi momenti delle undici canzoni dell’album temi a loro particolarmente familiari, ma nonostante quest’innegabile cordone ombelicale, non si tratta affatto di una semplice parodia di quella musica così emozionante. La classe e la forza espressiva che Henrik Thomsen, Imre Daun (un passato comune nei misconosciuti Don Patrol, a quanto pare alimentati da un carburante colorato di Profondo Porpora ) e Mats Johansson (per lui un curriculum di notevole livello come session man) infondono alle loro composizioni, scatena delle sensazioni di ardente godimento “psicofisico”, impossibili da istigare se si è degli sterili plagiari o dei superficiali frequentatori del settore.
Certo, si tratta di un piacere sofisticato, vaporoso, di melodie spesso molto soffuse (cosa che non guasta in certe situazioni a sfondo “romantico”!) e solari, ma che non trascurano mai la freschezza e l’incisività, proprio come una boccata d’aria fresca primaverile, dopo mesi d’opprimenti e grigie atmosfere invernali.
In un’analisi artistica tout court, manca all’appello, come appare abbastanza evidente, la presenza di un pizzico d’identità personale, eppure era molto tempo, forse proprio dai tempi d’oro di Mr. Adams (per intenderci, quello degli eighties, periodo “Reckless”), che non ascoltavo un equilibrio così avvincente tra sagace immediatezza e raffinata intensità interpretativa, convincendomi che una certa forma di “personalità” si può palesare anche nel saper conferire vitalità e verve a cose inventate da altri, soprattutto se questi “altri” non sembrano essere più così abili nel proporle, almeno se paragonati ai loro discepoli.
Dominate dalla voce di Henrik Thomsen, che potremmo tranquillamente definire come una deliziosa interpolazione timbrica tra Brian Adams e John Waite (e i suoi Bad English possono essere considerati anch’essi come credibili ispiratori dell’opera) e con l’autorevole contributo compositivo di Jim Jidhed degli Alien (in “Bring down the stars”), il debutto degli
Hope conquista per tutta la sua durata con una miscela musicale ammiccante e coinvolgente, ricca di citazioni (oltre a quelle già menzionate, da sottolineare anche gli impulsi U2 di “See the sign”) e ciò nonostante assai efficace, confortevole ed appagante, praticamente perfetta per mettere da parte brevemente tutte le incertezze e le inquietudini del vivere quotidiano.
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