A metà anni 90 i
Riot non sono più la band di heavy metal urbano e "delinquenziale" di "
Fire Down Under" o "
Restless Breed". Nonostante questo cambio di direzione verso un suono più elegante e strutturato, il gruppo aveva comunque imposto un notevole colpo di coda con "
Nightbreaker" (1994), probabilmente l'album più giustamente celebrato del decennio. Il riferimento di
Mark Reale sono nel frattempo diventati i
Rainbow di
Ritchie Blackmore, ma questo non significa assolutamente uno sterile giochino di stucchevole deja-vu nei riguardi del maestro inglese. Confermato
Mike Di Meo dietro il microfono, dopo la convincente prova sul succitato "Nightbreaker", i Riot di "
The Brethren Of The Long House" si fanno suggestionare (positivamente) dal blockbuster
L'Ultimo Dei Mohicani con
Daniel Day Lewis, tessendo un concept al tempo stesso interessante e struggente. La stessa copertina raffigura uno sciamano indiano che, nelle sue profetiche visioni, viene intimorito dall'arrivo di tre misteriose caravelle, e basta poi girare la custodia del cd per notare che i velieri assumono le sembianze della Morte incombente.
Onestamente la qualità di questo nuovo lavoro non raggiunge i picchi del suo celebrato predecessore, tuttavia si tratta di uno di quei rari casi in cui il concept stesso riesce a dare un quid in più rispetto alla proposta musicale in sé e per sé. Si percepisce un senso di angoscia, di tragedia imminente, nonostante un suono ben distante da ipotetiche suggestioni doom. È probabilmente ciò che i Riot vogliono esprimere, ed è sicuramente ciò che i Riot riescono a rendere benissimo. La tonante voce di Mike Di Meo, potente incrocio tra
Dio e
Coverdale, funge da perfetto cantore della storia: drammatica ma orgogliosa, suggestiva ed intensa. L'intro, affidata alla soundtrack tratta da "
Last Of The Mohicans", catapulta immediatamente l'ascoltatore in un mood di poesia e guerra (per la libertà), manifestata con convincente efficienza nelle spedite "
Glory Calling" e "
Rolling Thunder". Ma non sono solamente i pezzi più urgentemente belligeranti la forza del disco, e ne è lampante dimostrazione la struggente ballad "
Rain", che racconta gli ultimi momenti di vita di un nativo rassegnato alla morte piuttosto di finire in schiavitù, sotto una pioggia battente e consolatoria.
La cover dell'inno antirazzista/antipolitico "
Out In The Fields" di
Gary Moore viene calata con naturalezza nel contesto, tra una tambureggiante title-track ed una "
Wounded Heart" con qualche rimando al class metal squisitamente 80's. "
Santa Maria" è invece un meraviglioso affresco acustico gestito da chitarra e pianoforte, in cui Di Meo interpreta una melodia ed un testo da brividi.
La produzione appare invero un po' confusa, infatti i rispettivi strumenti non spiccano nitidi e perentori come da usanza di quegli anni. Ma se è vero che ogni opera fa storia a sé, un suono cristallino per "
The Brethren Of The Long House" sarebbe stato una forzatura non richiesta. "
Blood Of The English", "
Holy Land" e "
Ghost Dance" tengono alto il vessillo dell'hard rock epico, prima della chiusura trionfale affidata a "
The Last Of The Mohicans (Reprise)", in cui Mark Reale guida la band in una sontuosa rilettura della celebre colonna sonora.
Non siamo di fronte ad un disco perfetto, e nemmeno ad uno degli episodi migliori della band, tuttavia si può tranquillamente affermare che "The Brethren Of The Long House" rappresenta un "unicum" nella loro storia. Come tale, dovrebbe essere catalogato ed opportunamente rivalutato.
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