Per molti i
Praying Mantis restano solo uno dei tanti gruppi “perdenti” della NWOBHM, dimenticando con troppa facilità che, oltre allo storico “Time tell no lies” e alla partecipazione alla leggendaria “Metal for Muthas”, i nostri hanno saputo produrre negli anni un bel po’ di buona musica, arrivando fino ai recenti “Nowhere to hide” e “The journey goes on”, due lavori di raffinato e vitale hard rock melodico, degni di notevole considerazione.
E ci riprovano anche con questo “The sanctuary”, a persuadere gli scettici e i distratti, grazie alla tenacia e all’esperienza dei fratelli ispano/greci Tino e Chris Troy, all’ambizione dei nuovi innesti e al patrocinio della Frontiers, che evidentemente crede molto nelle loro qualità.
Non posso che approvare tali convincimenti, dal momento che anche nel 2009 i Mantis continuano ad avvalersi di una sintassi sonora all’insegna del dinamismo, della classe e della forza espressiva, non rinnegando del tutto le origini ed affidandosi ancora una volta con sicurezza al linguaggio universale della melodia, palesato tra hard classico, british pomp e AOR.
Nel ruolo che fu di Bernie Shaw, Gary Barden, Colin Peels, Mark Thompson-Smith, Tony O’Hora. John Sloman e Doogie White, troviamo ora lo sconosciuto (almeno a me!) Mike Freeland, un singer che, accettando un simile confronto, deve essere piuttosto sicuro dei suoi mezzi e che alla luce dei fatti non si dimostra per nulla presuntuoso, visto che offre una prova praticamente impeccabile sotto il profilo tecnico ed interpretativo.
A dire la verità l’opener “In time”, con i suoi vaghi accenni power-osi, mi aveva fatto temere per un istante, ma è bastato arrivare al refrain e valutare lo sviluppo complessivo del brano per rinfrancarmi, e con l’arrivo di “Restless heart”, un pezzo elegante e rigoglioso che esplode nel contagioso coro, l’operazione d’espugnazione emotiva ha cominciato a consolidarsi in maniera sempre più prepotente.
Si continua con “Tears in the rain”, un mid-tempo dai bagliori bluesy di ragguardevole suggestione, “So high”, un numero intraprendente e incisivo e con “Lonely way home”, una ballata risolta con tempra e temperamento, anche grazie ad un eccellente Freeland.
Leggermente meno convincente appare “Touch the rainbow”, mentre il vibrante afflato di “Threshold of a dream” e, soprattutto, l’aristocratica intensità di “Playing God”, riconquistano livelli d’attenzione e apprezzamento decisamente più cospicui, parametri confermati anche dai fascinosi suoni esplicitamente adulti di “Highway” e dalla bella title-track, che chiude con epica fierezza un albo di egregia fattura tecnica e consistente efficacia compositiva.
La produzione cristallina di Andy Reilly (Asia, The Cult, FM) contribuisce fattivamente al nuovo prodotto di una band che varrebbe la pena smettere di considerare “solamente” come una “sopravvissuta” della NWOBHM, convincendosi che ha ancora parecchio da dire e da dare a tutti gli estimatori dell’hard-melodico.
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