Non credo di dire una sciocchezza affermando che se
Jorn Lande ha potuto vendere un bel po' dei suoi dischi solisti negli anni passati, è stato più per i suoi trascorsi con i Masterplan di Roland Grapow e, più recentemente, per le ospitate negli Avantasia di Tobias Sammet, piuttosto che per le sue effettive capacità di songwriter. Interprete di straordinarie capacità, immensa ugola a metà tra i migliori David Coverdale e Ronnie James Dio, il norvegese non è tuttavia mai riuscito a scrivere da solo un lavoro che rendesse giustizia alle sue ormai ultracelebrate corde vocali.
Lo affermai meno di un anno fa, quando mi trovai a recensire il precedente “Lonely are the brave”: canzoni gradevoli ma prive di anima. Un prodotto che pressoché chiunque avrebbe potuto confezionare senza problemi.
Oggi, a brevissima distanza da quel lavoro (e dopo la release in DVD del “Live in America”) il nostro eroe si ripresenta sul mercato con un prodotto nuovo di zecca, sempre su etichetta Frontiers Records. Questa volta le cose funzionano meglio. Abbandonate le sonorità in stile hard rock che avevano ammantato in lungo e in largo i suoi album, Jorn batte la via della pesantezza e dell'oscurità, ben simboleggiata dal titolo e dalla meravigliosa copertina, che mostra un inquietante personaggio (una sorta di demone dalla testa di corvo) sullo sfondo di uno scenario apocalittico. La title track è in effetti una mazzata monolitica senza respiro, una sorta di danza infernale dall'ossessiva cadenza doom, che pare proprio uscita dalle cose più cupe dei Black Sabbath dell'era Dio. Anche la voce di Lande, inconfondibile e meravigliosa come al solito, si propone su tonalità più cupe ed aggressive, offrendo interpretazioni molto vicine a quanto fatto su “The scarecrow”.
Si tratta di una delle cose migliori mai fatte dal Lande solista, e anche se le successive “Below” e “Road of the cross” appaiono di poco inferiori, si muovono comunque sulla stessa falsariga e non possono colpire positivamente. “City in between” presenta invece un bel ritornello aperto ed arioso che ci riporta su territori più classicamente hard rock, mentre “Rock and Roll angel” non smentisce il suo titolo e si rivela un'altra song da manuale, leggermente più movimentata della precedente, ma sempre comunque in possesso di quella cadenza drammatica e vagamente epica che pare essere il fattore in più di questo disco. Con “Burn your flame” arriva finalmente un pezzo veloce, che non riesce però ad essere più di tanto convincente. Molto bella è invece “World gone mad”, in cui si ritrova un po' lo spirito dei Whitesnake più mainstream e di certe cose dei Masterplan di “Aeronautics” (in realtà a tratti sembra proprio una outtake di quel disco). Qui abbiamo anche la possibilità di ascoltare una linea vocale costruita come si deve, cosa che al nostro era riuscita molto raramente in passato.
Siamo ormai arrivati alla fine, ma quale stupore nell'accorgersi che il pezzo conclusivo, “I walk alone”, non è nient'altro che un rifacimento dell'omonima song di Tarja Turunen. Che dire? Al di là della stranezza di una scelta del genere, c'è da dire che la versione di Jorn è da paura, tanto da annientare completamente quella dell'ex Nightwish (che pure non era affatto male). Il brano rimane identico, ma cambiano ovviamente gli arrangiamenti (molte chitarre, quasi assenti le orchestrazioni) e l'interpretazione vocale, assolutamente spaventosa per quanto è riuscito a far suo un pezzo scritto per un range del tutto differente. In definitiva, questo “Spirit Black” risulta essere il miglior disco di Jorn Lande in veste solista. Ancora una volta nulla di speciale, ma il livello qualitativo è molto più alto del solito, e questo indurimento generale dei suoni mi piace non poco. E poi la durata: è un piacere che finalmente si torni a fare dischi che non superano i cinquanta minuti. Non mi stancherò mai di ripeterlo: a parità di prezzo, meglio così che una quantità imbarazzante di filler...
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