Gli
Ephel Duath ce li ricordavamo alle prese con un black metal raffinato e sperimentale, che cercava di sviluppare quanto fatto in precedenza dagli
Emperor, con lo splendido album “
Phormula”, vera chicca del metal italico. Da allora molte cose son cambiate, non immaginereste nemmeno quante. Innanzi tutto una metà del duo, ovvero Giuliano, ha mollato la barca lasciando il mastermind
Davide Tiso unico titolare del progetto. C’è stato un cambio di etichetta visto che la band dalla nostrana Code666 si è accasata presso una sottoetichetta della mitica Earache, la Elitist, che per prima cosa ha ristampato il debut, con l’aggiunta di alcuni remix, sotto il nome “
Rephormula”. E ora? E ora è il momento di sperimentare ancora. “
The Painter’s Palette” è quanto di più concettuale e cerebrale ci possa essere, ma allo stesso tempo è un disco fisico, “carnale”, “sanguigno”. Reclutati un batterista strettamente blues/jazz quasi cinquantenne, un bassista di estrazione prog/fusion e un paio di cantanti, uno con la passione di
Jeff Buckley e del bel canto e l’altro che usava sminuzzarsi le corde vocali con l’hardcore e col crust, Davide ha dato vita ad un disco che ridisegna i confini del crossover in senso stretto. Crossover dove non basta prendere le singole componenti e miscelarle a dovere, ma dove i generi si fondono e diventano funzionali l’uno all’altro e dove il totale è superiore alla somma delle singole parti. Come definirli? Jazzcore? Jazz Metal? Avantgarde Music? I
Dillinger Escape Plan del black metal? Non voglio scervellarmi con stupide etichette, a chi interessano? Quello che conta è che stavolta siamo di fronte ad un disco eccezionale, un disco che fonde sfuriate di ferale hardcore nelle quali i crusty screams di Lucio lasciano il segno, digressioni jazz nelle quali è lecito dare spazio allo strumento e stupire con il calore dei suoni e la complessità delle ritmiche, con la sezione apposita veramente “over the top” (sentite cosa fa il bassista Fabio su “
Labyrinthine” ad esempio), momenti più rilassati e rilassanti accompagnati dalle suadenti vocals dell’altro Davide della band aiutato dalla liquida e mai invasiva elettronica dell’omonimo, tonnellate di metal massiccio che non hanno la pretesa di essere il “core” della proposta e che sanno ritagliarsi il loro meritorio spazio. E di cose da dire ce ne sarebbero ancore tante, a cominciare dall’azzeccatissimo uso degli strumenti a fiato che danno un feeling caldo, “analogico” oserei dire, come ascoltare un vecchio vinile, oppure la superba prova del drummer, il terzo Davide della band, che mette in campo tutta la sua esperienza per le ritmiche e i tempi non “ortodossi”. E il black metal direte voi? Già…il black metal…musicalmente non ve n’è l’ombra, ma mi piace pensare che il concept dietro al disco, sia mutuato direttamente dai trascorsi della band visto che, il disco in questione, associa ad ogni pezzo un colore o una tonalità cromatica, tentando di dare un suono ai colori o colorare il suono, oltre un secolo dopo le “Vocali” di Rimbaud e a qualche lustro dalla psichedelia. E forse i colori di questo disco li troverete tutti nelle sue note visto che l’artwork è completamente in bianco e nero. Miscelare la musica e fonderla come miscelare i colori e fonderli per dipingere nella mente/tela dell’ascoltatore scenari immaginifici e capolavori sonici. Godetevi questo spettacolare panorama della fine. Astenersi affetti dalla “Sindrome di Stendhal”.