Cosa attendersi da un disco sulla cui copertina spicca un’immagine di Bing Crosby, Danny Kaye e Rosemary Clooney tratta da una commedia musicale americana del 1954 intitolata “White Christmas”? Difficile stabilirlo, forse una collezione di canti natalizi “fuori stagione”, tenendo conto, per di più, che il sottotitolo dell’opera recita un “preoccupante” the
spirit of Christmas won’t set me free till next summer.Fortunatamente, come vedremo tra breve, le cose sono un po’ diverse, ma bisogna dire che il nostro Ezio Piermattei, titolare dell’enigmatico monicker
Levis Hostel, e i suoi collaboratori, hanno, in questo modo, fin da subito conquistato tutta la mia curiosità.
Interesse ed attenzione che cominciano a trovare un indizio più “solido” e, in qualche maniera,
tranquillizzante, scorrendo gli scarni credits del Cd, dai quali emerge la citazione di una rilettura di “Here” dei Pavement (un brano sempre morbosamente intrigante, anche con l’aggiunta dell’inedito tocco “orchestrale” presente in questa versione), ed ecco che finalmente questo segnale appare maggiormente rivelatore della complessa personalità musicale dei pescaresi, che, in effetti, dimostrano qualche affinità attitudinale con i portavoce del movimento “lo-fi”, pur mantenendo rimarchevoli peculiarità proprie.
Simili nell’approccio sonico “minimal-intellettuale” e in alcune verosimili passioni comuni (The Velvet Underground, le melodie sixties), i Levis Hostel presentano, rispetto ai colleghi americani, un orientamento decisamente più propenso ad atmosfere di pop trasognato e vaporoso, per quanto abbastanza eccentrico e stimolante.
A dire la verità, ancor di più che ad un Lou Reed, la voce di Piermattei fa spesso venire alla memoria l’enfasi sontuosa e decadente del classico David Bowie, o al limite quella di un Brett Anderson, con i suoi Suede (ma ho rilevato anche vaghi richiami alla filosofia artistica dei Natural Born Hippies) che risultano un altro dei gruppi da utilizzare come plausibile coordinata sonora.
Dopo tutte queste “chiacchiere” tipiche dello scribacchino che tenta affannosamente di offrire qualche ragguaglio comparativo, arriva inevitabilmente il momento di fornire anche un suo personale giudizio, ed è qui che cominciano le insidie vere, perché, come già anticipato, “Star bell jar” è un lavoro abbastanza affascinante, le voluttuose armonie adagiate su oblique strutture glam / indie-rock appaiono, sebbene talvolta un po’ stucchevoli, complessivamente gradevoli, e offrono positivi spunti di “riflessione” sulle capacità creative dei nostri, e tuttavia, anche dopo svariati ascolti, di questi pezzi (a parte la cover, ma in quel caso entra in gioco anche un’antica passione!), impigliato nei meandri della memoria e dei sensi, non rimane molto: una
faccenduola non trascurabile, per un albo che sembra puntare, per una sua affermazione, su caratteristiche quali istantaneità e “prontezza”, seppur sviluppate in forma “irrequieta” e volubile.
Interessanti, continuano ad esserlo, e tuttavia il potenziale espresso necessita di una supplementare coltivazione. Ah, dimenticavo … Buon Natale!
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