Lungo la direttrice che ha inizio dai seminali Black Sabbath, passa attraverso l’iconoclastia di bands americane quali Blue Cheer e MC5 e approda ai campioni dello stoner e del grunge più “pesante”, che così tanto devono a quei formidabili modelli per il loro apprendistato, troviamo
anche questi
Passover, un quartetto con base a Novi Ligure che dimostra di conoscere piuttosto bene la materia scelta per la sua espressione artistica, suonandola con una grinta, un’energia e una vocazione sicuramente degne di notevole considerazione.
Il “carattere” esibito nelle composizioni, dove non mancano i fondamentali ingredienti del genere (vale a dire riff colossali in saturazione, ritmiche pulsanti e orbitali, voci viscerali, il tutto condito da un tocco di sinuosa psichedelia), rappresenta il punto cruciale della prestazione dei nostri, i quali aggiungono al competente quadro complessivo pure il “rischio” di un cantato in madrelingua, un’opzione audace risolta con qualità e discreta personalità, sviluppate attraverso un approccio lirico adeguatamente sofferto e visionario.
In realtà, l’impressione è che si scelga di privilegiare l’impatto fisico alla digressione intellettuale, con i contenuti dei testi che sembrano ricoprire, nell’economia generale del disco, un ruolo leggermente “secondario”, o quantomeno complementare al muro sonoro che si trovano a dover fronteggiare, spesso talmente granitico e traente da conquistare gran parte dell’attenzione, offrendo poco spazio ad una loro immediata comprensione.
Le potenti intersezioni Sabbath / Kyuss / Soundgarden (“Badmotorfinger” era) contenute in “Convundidi” riescono ad infiammare istantaneamente mente ed anima, illuminate da un gusto melodico subdolo e intrigante e da una “italianità” (che li avvicina, per certi versi, alle esperienze di Karma, Drunkers e Ritmo tribale) non soverchiamente preponderante e tuttavia piuttosto fascinosa.
L’indomita veemenza di ”Soluzioni” non lascia scampo, il groove di “D.A.P.”, “Due” e “30 settembre” scava a fondo, “Bianca seta brucia”, “Macchia” e “Amigdala” (compresa del suo “flippato” seguito in forma di ghost track) ipnotizzano in una vertigine di spirali sensoriali e anche la maggiore “disinvoltura” melodica di “Disforia (… e sogni il vuoto)” e “Polietilene” piacciono per la loro totale mancanza di autoindulgenza.
Non resta che lo spazio per un appello rivolto a tutti gli “stoners” (ma forse sarebbe meglio dire i “rockers”) all’ascolto: nel momento del sempre più impegnativo “investimento economico”, non dimenticatevi di questi ragazzi italiani, magari solo perché la loro genealogia è un po’ lontana dalle magiche oscurità britanniche o dagli apocalittici deserti californiani … le loro “visioni” (artistiche, eh!) e il loro spirito vivono di un analogo immaginario e meritano tutte le Vostre attenzioni.
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