E’ opinione diffusa (lo affermava, almeno mi pare, anche una pubblicità!) che
il viaggio è più importante della destinazione. Ebbene questo particolare itinerario, abilmente progettato dai
Riverside, è iniziato già qualche tempo fa attraverso le visioni mesmeriche di un “sogno reale”, lucido, inquieto, intenso ed emotivamente totalizzante.
Conclusasi l’affascinante trilogia del “Reality dream” (2004 - “Out of myself”, 2005 - “Second life syndrome”, 2007 – “Rapid eye movement”), è giunto il momento di andare oltre, senza abbandonare le lucide e multiformi rappresentazioni oniriche tipiche della loro arte, ma rendendole al tempo stesso ancora più concrete e immaginifiche, in una descrizione che apparentemente sembra un ossimoro e in realtà vuole solamente rappresentare uno stato d’animo “turbato” ed estasiato.
E’ difficile spiegare a parole il contenuto di “Anno domini high definition” e l’evoluzione raggiunta dai suoi autori, poiché, alimentato da un concept dedicato alle frenesie e alle paure del domani caratterizzanti il vivere quotidiano (splendidamente riprodotto dalla suggestiva cover opera di Travis Smith), il disco sembra davvero essere una sorta di “alta risoluzione” di quell’immagine artistica che li qualifica fin dai loro esordi, espressa in una forma dove tutti i
pixel appaiono maggiormente “definiti”, pur nella loro continua e iridescente policromia.
Non si può, dunque, veramente affermare che oggi i Riverside siano più orientati verso un genere piuttosto che un altro, gli ingredienti del pulsante nettare sonoro distillato dai quattro polacchi sono, in fondo, sempre gli stessi, eppure l’equilibrio di tutte le componenti che si solleva da questi solchi ce li restituisce trasfigurati, diversi, “nuovi”, proprio come ci si aspetta dagli artisti dotati di spiccata personalità, che non ammettono di ripetersi anche senza sconfessare i propri ideali musicali.
Ed ecco che torna il concetto di
viaggio inteso come irrefrenabile desiderio di conoscenza e di ricerca, da compiere all’interno dei dedali della musica, percorrendo i sentieri della tradizione prog-rock, del metal, della psichedelia, del rock alternativo, del folk mediorientale, della fusion, arrivando a transitare fugacemente sulle piste dell’elettronica e tra le matrici più “colte” dell’hard dei seventies, con un rilevante incremento nell’importanza delle tastiere di Michał Łapaj, divenute fattore essenziale nelle vibranti atmosfere ordite dai nostri.
Su tutto, poi, una superiore intensità melodica, che riesce a scremare, tagliare, “asciugare” le architetture musicali, rendendo le canzoni più “dirette”, istantaneamente efficaci come probabilmente mai prima d’ora, abilmente pilotate dalla voce magnetica di Mariusz Duda, sensibilmente cresciuta in consapevolezza e carattere.
Nonostante la percezione nitida di un gruppo coeso e collettivamente ispirato, è proprio il singer dei Riverside ad essere il vero protagonista dell’opera, con la sua esperienza solista denominata Lunatic Soul che si rivela nettamente propedeutica alla nuova sintassi sonora.
Riferimenti comparativi? Moltissimi (durante l’ascolto mi vengono in mente, in una specie di frenetico zapping sensoriale, Rush, Led Zeppelin, Deep Purple, Genesis, Tool, Porcupine Tree, Pink Floyd, Opeth, Yes, Dream Theater, …) e nessuno, talmente sono ben congeniati e metabolizzati i presumibili influssi. Citazioni singole? Impossibili (e
deleterie), per l’impressionante qualità complessiva e perché sarebbe davvero troppo lungo e
proibitivo tentare di esprimere le ansie, i languori, il coinvolgimento e il caleidoscopio d’emozioni che si sprigionano dal Cd.
Non mi resta che rilevare con entusiasmo quanto i Riverside siano diventati veramente
grandi (in tutti i sensi), felice di poter proseguire in questo percorso che sono sicuro anche in futuro, saprà riservare ancora brividi e sorprese, assolutamente incurante di sapere quale sarà la meta dove esso potrà condurre. Qualche volta le convinzioni “popolari” hanno ragione …