Esordire con un capolavoro è un fatto incredibilmente gratificante, ma può diventare anche una sorta di “dolce” condanna, poiché esso diventa inevitabilmente la “pietra di paragone” di ogni successiva mossa artistica.
Quello dei
Dare di Darren Wharton è, in questo senso, un esempio perfettamente esplicativo: il loro “Out of the silence” è un disco talmente clamoroso da essere ancora oggi valutato come una di quelle pietre miliari irrinunciabili nella collezione discografica di chiunque si consideri un appassionato di musica.
Ripetersi o “addirittura” superarsi dopo un’impresa simile non è per nulla semplice, dal momento che ogni nuova proposta rischia sempre di essere commentata, per quanto affascinante possa essere, con un classico “bello, però quello là era un’altra cosa!”, spesso senza neanche approfondire a dovere i termini di una in ogni caso sempre “complicata” comparazione.
Introduco con queste parole la mia dissertazione su questo “Arc of the dawn”, perché sono certo che saranno in molti, come già successo con i precedenti “Calm before the storm”, “Belief” e “Beneath the shining water” (escludo dalla citazione il solo “Blood for from stone”, obiettivamente abbastanza diverso nei contenuti fondamentali), a “bollarlo” frettolosamente come l’ennesimo tentativo, fatalmente “frustrato”, di uguagliare quell’irripetibile esordio.
Ed eccoci alla questione nodale: come anticipato, anch’io ritengo “Out of the silence” un disco enorme, il frutto di una rara “congiunzione astrale” assoluta, una collezione pressoché perfetta di brani che hanno definito i termini di quel rock fortemente evocativo e “spirituale” divenuto il nobile marchio di fabbrica dei Dare, ma sono anche convinto che continuare a giudicare i suoi successori solamente come dei gradevoli e tuttavia infruttuosi tentativi di replicare quello “stato di grazia”, sia decisamente ingeneroso nei confronti dell’arte che Wharton ha saputo produrre
anche dopo il 1988.
Si tratta, infatti, di dischi
comunque splendidi, per merito, innanzi tutto, delle doti di scrittura del nostro ex-Thin Lizzy (è probabile che lavorare a stretto contatto con un certo Phil Lynott, sia stato assai propedeutico!), piuttosto peculiari e capaci di coniugare tensione emotiva, raffinatezza esemplare e un’incredibile forza immaginifica, aspetti che inducono l’ascoltatore a
sentire profondamente la musica scorrere direttamente sotto la pelle, raggiungere i gangli più reconditi della propria sensibilità e toccare davvero le corde di quell’
emozione autentica, di cui spesso si fa menzione, indicandola come il vero arbitro di una manifestazione artistica e che solo pochi sanno stimolare così prepotentemente.
Con un equilibrato melange fatto di arcani bagliori celtici, eroiche atmosfere dai “vasti orizzonti visivi” e imponenti risonanze emotive artefici di costanti impulsi interiori, anche il sesto studio-album dei Dare appare, dunque, essenzialmente come una sorta di fascinoso “flusso di coscienza”, in cui ognuno, tramite parole e note, entrambe vellutate e suggestive, può riuscire ad allontanarsi dalla percezione del
reale e, abbandonandosi alla loro elaborazione mentale, rintracciare nel proprio intimo, sentimenti, malinconie, rimpianti, ricordi, passioni e accese sensazioni.
Va da sé, quindi, che chi cerca epidermiche sollecitazioni energetiche, istantanee (e magari effimere) manifestazioni ricreative o volubili strutture espressive, potrà rimanere deluso da “Arc of the dawn”, mentre sono sicuro che esso conquisterà chi si prenderà il “giusto” tempo per comprenderlo (trovando, al contempo, magari anche un’adeguata “ambientazione” e condizione d’ascolto!) e saprà apprezzarne il notevole impatto melodrammatico e il tangibile pathos poetico, ben lontani da una qualsivoglia forma di superficialità melodica.
La segnalazione delle cover di “Emerald” (un omaggio di cui Phil sarebbe fiero) e di “The flame” (dei Cheap Trick) appare, così, solo una doverosa nota di “cronaca” all’interno di un albo che non “teme” (anche se non condivido del tutto questa scelta!) nemmeno di sfidare il suo passato più “glorioso” (con le sontuose riletture di “King of spades” e “I will return”) e si propone nella sua meravigliosa globalità come un momento di profonda riflessione e di benefica fuga dalle frenesie metropolitane a cui siamo spesso sottoposti.
Non sarà, forse, un’opera d’arte ineguagliabile, ma io questa la chiamo Grande Musica.