Ci sono due costanti che associano
Eutk.net, oggi nuovamente
http://www.metal.it, ed i
Sacred Steel:
la prima è l'incredibile ritardo con cui, "puntualmente", le recensioni delle fatiche del combo germanico vedono la luce su queste pagine, e la seconda è l'insieme dei miei smodati sorrisi appena schiaccio il tasto play del lettore, in attesa dell'arrivo delle vocals...
IL GATTO, IL GATTO, IL GATTOOOOO!
E' più forte di me, ormai sono passati 13 anni dall'esordio discografico dei Sacred Steel ma l'effetto è sempre il medesimo, una grande ilarità che però non proviene da un senso di sfottò o ancor peggio di derisione, anche perchè adoro il true metal della band, ma è in dubbio che la voce di
Gerrit Mutz abbia il potere di far sorridere o di far imbestialire, qualora si faccia parte della nutrita schiera di detrattori.
E così è stato ancora una volta, dopo i primi secondi della terremotante "
Charge Into Overkill" che ci conferma sia la direzione musicale dei nostri (non che ce ne fosse bisogno...) sia l'inossidabile ugola del gatto cresciuto a wurstel e crauti.
Nonostante una produzione ai limiti della decenza e della legalità, il precedente “
Hammer of Destruction” ha riscosso un buon successo, anche a causa di un notevole ispessimento del sound, sempre più massiccio e violento nel corso di quesi ultimi anni, testimoniato dalla furia omicida di "
Slaughter Prophecy", senza dubbio il cd più estremo mai partorito dai nostri; nel nuovo "
Carnage Victory" troviamo invece un lieve ammorbidimento, sempre prendendo questo termine con le molle dati che parliamo di una delle band più becere ed intransigenti del panorama classic metal mondiale, ed un rivolgere lo sguardo verso i primi due lavori dei Sacred Steel, "
Reborn in Steel" e "
Wargods of Metal", ripercorrendo quello che più recentemente è stato il cammino di "
Iron Blessings".
Le mazzate non mancano, e la opener stessa è un imperdibile tributo agli anni '80 ed a tutti i clicheès che tanto amiamo, ed anche la successiva "
Don't Break The Oath" non potrebbe deludere, dato l'esplicito titolo, ed in effetti ci troviamo di fronte ad uno dei migliori pezzi del lotto, costituito da riffs anthemici che trasudano metallo fuso e rovente.
La band conosce il proprio compito a memoria, è affiatatissima ed il trademark è consolidato ed affidabile: le uniche incognite di ogni nuovo disco sono la produzione e la qualità del songwriting: parlando della prima stavolta fortunatamente è stato fatto un buon lavoro ed i suoni sono bilanciati e ben resi, mentre le canzoni si assestano su un buono standard di apprezzamento, ma appena lievemente inferiori a quelle del capitolo precedente, che però, bisogna dirlo, rappresenta uno degli apici della carriera di
Jens Sonnenberg e compagni.
In questo disco troviamo invece composizioni nettamente più classic metal, quasi maideniane vorremmo dire, e basta ascoltare "
Broken Rites" per comprendere quanto Gerrit Mutz abbia alzato il piede dall'acceleratore in termini di violenza e pesantezza, spostandosi su territori meno ostili e più easy listening, in ogni caso sempre ben realizzati.
Testi cattivi, atmosfere evil, atteggiamento sfrontato ed immagine che più retrodatata non si può, i
Sacred Steel sono quello che più rappresenta il loro modo di essere, così legati agli anni '80, così tamarri e beceri, ma allo stesso tempo così genuini, ruspanti, semplici ed efficaci.
In definitiva ancora un buonissimo album da parte dei nostri tedesconi, che sicuramente non deluderà le attese di tutti i fans della band e che dovrebbe essere ascoltato perlomeno da tutti gli inossidabili defender ed amanti del buon vecchio metal che fu e che rivive ancora oggi nei Sacred Steel.