Per un attimo mi hanno “sviato”, gli
Steel Flowers di Milano.
Aprono il al loro debutto ufficiale sulla lunga distanza, enigmaticamente denominato “12 Tales from the life of Mr. Someone”, con un brano che lascia presagire una vocazione saldamente ancorata nell’hard-rock, ma con piccole velleità contaminatrici di natura vagamente “modernista” (tanto che “When the future is now”, a tratti, potrebbe sembrare, con un
po’ di fantasia, una versione granulosa e “futuristica” degli Uriah-Heep!), mentre già con il successivo “Summer tale” (un viscerale numero di bluesy rock ornato da un bel contrappunto di piano!), invalidano questa pur tenue suggestione, che ritornerà a fare capolino solo nella massiccia “Antithesis of being” (approssimativamente assimilabile a certe “attualizzazioni” di Alice Cooper), anche se francamente con minore efficacia.
L’intento primario dei nostri è, dunque, quello di affidarsi al rock duro d’ispirazione settanta-ottantiana (incluso un significativo apporto “stradaiolo”), tentando magari di rivitalizzarlo con la creatività e la verve di un gruppo all’esordio “ufficiale” e tuttavia senza rischiare di “snaturarlo” con materiale troppo estraneo alla sua natura autoctona.
Da tale indirizzo attitudinale scaturisce un dischetto abbastanza godibile, alimentato dal combustibile costituito da Guns n’ Roses, Deep Purple, Uriah Heep, Tesla, Alice Cooper, Velvet Revolver e Buckcherry, in un calderone che mesce la storia del rock e l’operato dei suoi migliori discepoli con gusto, istintiva carica artistica e un’interessante capacità di creare arrangiamenti melodici sufficientemente “particolari” da destare l’attenzione dell’ascoltatore.
Un interesse ancora lontano da trasformarsi in “entusiasmo”, però, perché spesso le composizioni perdono d’intensità e porzioni parecchio intriganti si alternano a momenti un po’ troppo subordinati e inconsistenti, evidenziando la necessità di una maggiore focalizzazione complessiva, così come sono convinto che una produzione più potente potrebbe contribuire fattivamente al raggiungimento dell’optimum del consenso.
Qualche parola anche sulla voce di Alessio D. Riz, abile nelle interpretazioni e tuttavia non ancora del tutto matura dal punto di vista di una personalità (a volte indugia troppo nel tentativo d’emulazione dei suoi presumibili modelli Axl e Gillan, mentre non spiace il
rasp alla Jeff Keith e pure il ricorso a uno stile - non so quanto premeditato - “eccentrico” e vagamente “dissonante”, soprattutto nei pezzi “drammatici”, cfr. le dignitose ballate “You're my shout”, “17th Full moon” e “Sweet fire eyes” e il chorus della bella “Night Queen”, ad esempio) bisognosa di ampliamento.
Oltre a quelle, in qualche modo, già descritte, canzoni come le dinamiche “Against the fanatics” e “That bitchy witch”, e anche “Smash the fellow (hypnotic war)”, con i suoi bagliori psichedelici offrono buoni spunti che solo con un ulteriore impegno nella messa a fuoco e nel coordinamento si potranno trasformare in qualcosa di veramente valido e competitivo.
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