Inutile nascondersi “dietro a un dito”. I
Giant senza la voce e la chitarra di Dann Huff non costituisce un evento da poter sottovalutare, nemmeno se i suoi “sostituti” (in pratica due per un unico musicista, a testimoniare la consistenza della defezione!) si chiamano Terry Brock (Strangeways, The Sign, Seventh Key) e John Roth (Winger).
E per placare i ragionevoli timori dei fans del gruppo non è sufficiente neppure sapere che il buon Dann ha concesso la sua sei corde in un paio di assoli e la sua illuminata penna in alcuni dei pezzi di questo “Promise land”, da valutare come l’autentico “secondo” ritorno della band statunitense, sospirato per ben nove anni, dopo che già per il “primo” avevamo dovuto attendere un periodo altrettanto lungo e
sofferto.
Ed ecco che si fanno strada, almeno nella mente di chi, come il sottoscritto, considera l’appellativo scelto dagli americani come una manifestazione esplicativa della loro monumentale taglia artistica, inevitabili ansie e anche qualche perplessità di carattere “etico” sulla scelta di mantenere, con una line-up tanto modificata, quella denominazione ormai scolpita indelebilmente nel nostro cuore di melodic-rockers, così come i titoli dei capolavori che essa è stata capace di regalarci nel corso della sua esistenza.
Come chiamereste, infatti, “Last of the runaways” (1989), prototipo di hard melodico languido, intimistico e vibrante, “Time to burn” (1992), una replica altrettanto emozionante caratterizzata da un approccio più roccioso e anthemico e “III” (2001), che, combinando entrambe le tendenze, proseguiva l’impeccabile parabola musicale del gruppo anche dopo l’abbandono del tastierista Alan Pasqua (una circostanza che mi aveva già cagionato una certa, fortunatamente infondata, apprensione)?
Una qualunque classificazione maggiormente modesta è da osservare con “preoccupazione” e “sospetto” (otopatie degenerative, scompensi cardiaco-affettivi, semplice
de gustibus,…), ed è per questa ragione che l’approccio con il quarto
parto del Gigante, visti i presupposti, non appariva proprio tranquillo.
A rasserenarci ci pensano prima di tutto il resto, le canzoni di “Promise land” (cui hanno contribuito, oltre al “fuggiasco” Huff, anche il fedele Mark Spiro, Erik Martensson, Robert Sall e Miqael Persson), ancora una volta una mistura infallibile di eleganza ed efficacia, e poi la prova sontuosa della band al gran completo, una volta superato lo “scoglio iniziale” di ascoltare il tipico trademark dei Giant diffuso tramite una diversa timbrica vocale.
Intendiamoci, adoro Brock e la sua impeccabile laringe marchiata di grazia e forza espressiva, ma è altresì inevitabile all’inizio rimanere un po’ spiazzati e, da vecchi estimatori di Dann, non riservare un pensiero a chi ha collaborato fattivamente a creare questo suono così memorabile.
Approfondendo il contenuto del disco, direi che l’approccio generale appare più vicino allo stile del debutto che non a quello dei suoi successori, la propensione all’AOR levigato e atmosferico prende il sopravvento sull’ispirazione arena rock, conservando al contempo i fondamenti tipicamente yankee di una cultura musicale che non dimentica il blues e maestri quali Foreigner, Journey, Montrose e Van Halen.
Se vogliamo trovare un piccolo difetto all’album, soprattutto nella comparazione con un passato così impegnativo e ingombrante, potremo andarlo a cercare in un velo appena accennato di
formalismo finora sconosciuto ad una formazione che era riuscita sempre a stagliarsi nettamente dalla massa dei migliori frequentatori dei territori “adulti” e che invece oggi vede, a volte, minimamente ridotta questa prepotente supremazia e vagamente decurtata la sua riconoscibile personalità.
In realtà si tratta più di una sensazione che di una vera constatazione suffragata da fatti concreti, anche perché sfido chiunque a trovare
tangibili pecche emotive nel programma di “Promise land”, il che m’induce a scacciare i “cattivi pensieri” e mi persuade che verosimilmente la situazione è ancora una volta imputabile alla sindrome di “ambientamento”, in qualche modo legata alla nuova line-up, di cui soffre il mio
ostinato apparato cerebro-cardio-uditivo.
A Voi, dunque, scegliere i personali best in class e dedicarsi agli inevitabili (e altrettanto inutili, probabilmente) confronti con i classici del gruppo: per quanto mi riguarda, eleggo la conferma di “fede” “Believer (redux)”, la title-track, “Never surrender”, "Two worlds collide", “Through my eyes”, l’irresistibile “I’ll wait for you” e “Dying to see you” (sul versante più melodrammatico ed emozionale), "Prisoner of love", “Plenty of love”, "Double trouble" e "Complicated man” (su quello maggiormente cromato e arroventato), come degni eredi di una tradizione veramente
Gigantesca in tutte le sue accezioni.
Adesso sì che posso rilassarmi … l’avventura dei Giant ha ripreso, con nuovi e vecchi protagonisti, il suo favoloso cammino … ora speriamo non si fermi più.