Gli Holy Mother hanno rappresentato ai miei occhi una delle maggiori promesse del metal made in USA, quando nel 1998 se ne uscirono con quel Toxic Rain che ancora oggi può essere considerato il miglior episodio di questa band e una delle più entusiasmanti uscite degli anni passati. Sfortunatamente quello che sembrava essere il presagio per un roseo avvenire si è dimostrato più che altro essere un episodio a sé stante, dato che mai in seguito, la band capitanata da Mike Tirelli è stata in grado di avvicinarsi anche solo lontanamente a quei formidabili standard da loro stessi dettati. Il successivo Criminal Afterlife si dimostrò addirittura quasi un flop, mentre My World War tentava di risollevare leggermente la media delle composizioni riuscendo in parte a riscattare la band agli occhi dei propri fan. Finalmente, dopo 3 anni e varie distrazioni (leggasi Messiah's Kiss) Mike Tirelli ritorna a far parlare di sé e della sua band principale con questo Agoraphobia, nel quale, oltre al bassista originale Randy Coven troviamo Frank Gilchriest (Virgin Steele) dietro alle pelli e lo stesso Tirelli alle chitarre, coadiuvato negli assoli da Herman Frank (Victory). L'album non parte di certo col piede giusto, soprattutto per il suono delle chitarre decisamente discutibile, troppo secche e prive di profondità, e anche per il sound generale poco incisivo, al quale comunque alla fini ci si abitua pure. Ad un primo ascolto Agoraphobia lascia alquanto perplessi: il livello delle canzoni è passabile, il lavoro di Mike (alla voce) è come sempre indiscutibile, ma la venatura "moderna" delle song, caratterizzata da un'accordatura ribassata, da innesti tecnologici e da altre soluzioni controverse, non convince appieno e rendono controverso l'intero stesso album. Per intenderci, gli elementi innovativi (innovativi rispetto al sound della band, si intende) presenti in My World War vengono qui ulteriormente accentuati anche se usati con maggior consapevolezza e in grado di centrare maggiormente l'obiettivo, pur lasciando una sensazione di non completo appagamento. Infatti pochi sono gli episodi che colpiscono fin da subito, "Modern Day God", la title track o la opening "Success" ad esempio, per la loro maggior immediatezza e orecchiabilità, mentre la altre tracce richiedono lunghi e attenti ascolti per venir assimilate e apprezzate a fondo. Questo può certo essere un limite, anche perché alcuni episodi proprio non si salvano neanche dopo ripetuti ascolti ("Hungry For Exxstacy" ad esempio), d'altro canto permettono di apprezzare ulteriormente il nuovo corso musicale degli Holy Mother. Immancabile, come da 3 dischi a questa parte, una cover, questa volta "Never Say Die" dei Black Sabbath, prima di chiudere con "Sheer Erotica", altro episodio poco convincente per un disco dal quale personalmente mi sarei aspettato molto di più e che non riesce a riportare ad alti livelli il nome degli Holy Mother, peccato.
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