“Seventh Star”, chiariamoci subito, è un disco che amo particolarmente, testimonianza ne sia che ne possiedo tutte le versioni possibili ed immaginabili (vinile, musicassetta, cd e cd in versione rimasterizzata in digi pack, quest’ultima con tanto di disco bonus live con Ray Gillen alla voce). Lo amo perché è un bel disco, perché appartiene ad un’epoca in cui ho maturato l’interesse vero per la musica, perché è in me indelebile il ricordo di quell’LP in vetrina, con la foto del gigante baffuto Anthony Iommi in mezzo ad un deserto (albeggiante?), incorniciato da uno splendido titolo. Ho sempre percepito un che di magnetico. “A volte un dettaglio, un oggetto, ti chiamano per attirare la tua attenzione” avrebbe detto il grande architetto Mario Ridolfi. E così è stato: da quella vetrina ho sentito “il richiamo della Settima Stella”.
“Seventh Star” è, cionondimeno, il manifesto di quanto a volte i
Black Sabbath siano riusciti a pasticciare clamorosamente nel corso della loro splendida (ma non certo esente da scivoloni), lunghissima, fondamentale carriera. Da dove si può cominciare questa recensione? Come si fa a raccontare in poche righe la genesi di un disco bello sì, ma partorito durante il coma di un gruppo che è forse il creatore della sintassi stessa dell’Heavy Metal? Si potrebbe partire appunto col dire che nel 1986, anno di pubblicazione del disco, i Black Sabbath, praticamente, non esistono più.
Facciamo un piccolo passo indietro. La fine degli anni’70 segna anche la fine dei Black Sabbath in formazione classica, con Ozzy alla voce, Geezer Butler al basso e Bill Ward alla batteria: i Nostri si accomiatano dal pubblico con due uscite travagliate, di certo di buon livello qualitativo, tuttavia figlie di un senso di sbandamento stilistico-musicale, quanto umano e di un collasso dei rapporti interni (fra “Technical Ecstasy” e “Never Say Die!” Ozzy è fuori dal gruppo a tutti gli effetti). Gli anni ’80 iniziano col botto, con l’ingresso di R.J. Dio e una doppietta di valore assoluto come “Heaven and Hell” e “Mob Rules”. Chiusa anche questa parentesi in modo non del tutto amichevole, nasce la collaborazione con Ian Gillan, frutto (è tutto dire) di una sbronza fra l’ex Purple, Iommi e Butler, che pianificano in un pub le future mosse del gruppo. Il disco che ne viene fuori, lo sapete, è il solo “Born Again”: tutto sommato un gran bel disco. Tutto sommato una roba registrata e prodotta in stato confusionale, ma questa è un’altra storia.
Dunque nel 1985 ognuno dei Sabbath prende la propria strada e Iommi vorrebbe realizzare il proprio album solista, con una serie di cantanti ad alternarsi alla voce dei vari brani. Fra pressioni discografiche e ripensamenti, il nuovo disco viene fuori con il moniker “Black Sabbath featuring Tony Iommi” e la nuova formazione comprende il fido polistrumentista Geoff Nicholls alle tastiere, Dave Spitz al basso (Gordon Copley nella sola “No Stranger to Love”), Eric Singer alla batteria e Glenn Hughes alla voce. La cosa immediatamente evidente è la pochezza degli strumentisti scelti, quasi delle comparse, il nulla se confrontati ai predecessori.
Ben altro discorso merita invece Hughes: per me, avere l’ex Trapeze/Deep Purple nella stessa formazione con Iommi è come avere Dalì e Picasso nello stesso atelier. Iommi è il Maestro del Riff, chitarrista granitico e scultore di frasi musicali di marmo (nero) che hanno fatto da colonne portanti dell’Heavy Metal per i lustri a seguire; Hughes rappresenta l’estro, la voce decisamente fuori dagli schemi del rock, potentissima eppure così nera, soul e funkeggiante, da risultare impensabile al posto che fu di Ozzy.
Alcuni (Hughes stesso? non ricordo) hanno definito, in modo quasi sprezzante, questa collaborazione come “i Metallica che incontrano James Brown”. Eppure quello che in molti considererebbero “eresia”, è quello che realmente funziona in quest’album, cioè l’alchimia fra due grandissimi, che fondono i loro talenti in una serie di brani duri, trasudanti feeling e pura emozione in ogni minuto secondo di riproduzione.
Intanto “Seventh Star” parte a razzo. La batteria arrembante introduce “In For The Kill”, una grande apertura che ci rassicura sulla piena forma del quintetto. Brano heavy con sezione ritmica secca e potente (meglio distinguersi del tutto dallo stile degli inarrivabili Butler e Ward) e Iommi e Hughes sugli scudi: la chitarra è compattissima, il suono è lontano dalla sciatteria di “Born Again” e sia la parte ritmica che quella solista sono ben eseguite ed ispirate; la voce è una bomba, di una forza trascinante tale, che fa del primo brano uno dei miei preferiti di sempre.
Ma se la traccia uno è dolce e fa presagire il miracolo della resurrezione (l’ennesima) dei Black Sabbath, la successiva “No Stranger to Love” ci spiazza e ci lascia un po’ d’amaro in bocca. La ballad, che già come tipologia di canzone poco si addice al repertorio della band, parte con una bella atmosfera, un bel dialogo fra chitarra e tastiera, ma si perde in un ritornello facile facile, dal sapore radiofonico - stelle e strisce. Non bruttissima, ma davvero fuori contesto e non troppo nelle mie corde di ascoltatore, per quanto questo possa essere importante.
Per fortuna si torna subito alle atmosfere iniziali, con la rapida ed efficace “Turn to Stone”, altra mazzata pesante in cui batteria e chitarra si rincorrono a ritmo elevato e Hughes può dare libero sfogo alla potenza della sua voce, sempre espressiva e godibile.
“Sphinx (the Guardian)” regala un minuto di gloria anche a Nicholls, che si esibisce in un brano tutto per tastiera, in cui sembra di sentire il vento e la sabbia del deserto su cui domina immobile e muta la Sfinge d’Egitto. Il suono suggestivo ci accompagna dritto alla title track del disco, “Seventh Star”, in cui Iommi si cimenta in un riff più lento ed esotico, su cui Hughes ci racconta di epoche lontane, angeli caduti, piramidi che cadranno e si trasformeranno in sabbia prima dell’alba e del misterioso richiamo della “settima stella”. Il lato A del mio vinile termina con il suono del vento che soffia dalle casse. Ci metto un po’ a uscire da questa evocazione di immagini e corro a cambiare lato.
Il disco prosegue con “Danger Zone”, brano di classico hard’n’heavy, bello e diretto, forse un po’ statico, fino all’ingresso del bellissimo solo di Iommi, che dona al pezzo qualità e brio e su cui Singer varia brillantemente il tempo. Poi il pezzo va a sfumare, tornando al roccioso riff iniziale.
“Heart Like a Wheel” mi riserva un sussulto forte, quanto inatteso. La traccia sembra cominciare, ma non si sente alcun suono distinto. Un effetto di fade in nell’incisione fa crescere il volume del brano a poco a poco, come se i tecnici del suono avessero catturato appena in tempo la registrazione di una jam session in sala…e poi, signore e signori, Iommi e Hughes esplodono in un blues elettrico di prim’ordine, in cui la lunga improvvisazione del baffuto chitarrista è spettacolare e Hughes fa vibrare anche i vetri di casa vostra, con un interpretazione da grandissimo singer quale è.
“Angry Heart” è sullo stesso stile di “Danger Zone”, purtroppo anche in termini di staticità. Il brano è godibile, senza dubbio, ma si ha l’impressione di ascoltare una bozza che avrebbe necessitato di qualche rifinitura in più. Belle le tastiere e grande Glenn, capace di arricchire con le mille sfumature della sua voce una canzone non proprio indimenticabile. Senza soluzione di continuità si passa immediatamente a “In Memory…”, in cui si piange la morte di un amico, con chitarra e voce ancora lì a dispensare brividi per pulizia (per la prima) e intensità (per la seconda). Bel finale per un disco heavy, dark (se si esclude il passo infelice della traccia n°2) e di qualità sempre buona (ma purtroppo altalenante), in cui i Black Sabbath hanno il merito di proporre un suono a mio parere ottimo e molto curato, un artwork indovinato (ho sempre amato la copertina interna, con la rappresentazione delle tentazioni di Sant’Antonio) e una produzione di nuovo degna del loro blasone. Nota di merito a Jeff Glixman, produttore e ingegnere del suono, che aiuta con Glenn Hughes a dare una sistemata ai testi.
A chi mi chiede se “Seventh Star” sia davvero un disco dei Black Sabbath, rispondo che non importa. Il dilemma è risolto nell’acrobazia di marketing di quel “featuring Tony Iommi”, che rispecchia perfettamente la fase di transizione, di immensa confusione e di coma (per meglio dire, più poeticamente, di letargo), che la band attraversa in quegli anni. Le enciclopedie del Rock incenseranno i capolavori iniziali di questo immenso gruppo, come è giusto e dovuto che sia, ma non potete privarmi del gusto e dell’emozione di godermi questa magnifica parentesi anni ’80, in cui Iommi, autore di tutti i brani, ha messo insieme una banda di matti e ha elargito a piene mani fiumi di note, cariche di sogni e di elettricità.
Per me un bell’8 è più che meritato!
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno