D’accordo, i Doc Holliday sono stereotipi del southern rock, nessuno ha spiegato loro che i cow-boys ormai li usano per vendere ricordini ai turisti e lo Stetson e gli stivaloni sono fuori moda da un pezzo.
Sicuro, i Lynyrd erano un’altra cosa ed anche gli Outlaws e i Molly Hatchet hanno avuto più successo.
Indubbio, una formazione che non ha portato nulla di nuovo limitandosi a costruire una carriera sui Winchester e i fuorilegge, sui cuori infranti e la voglia di libertà, sull’orgoglio sudista un po’ impolverato ed immobile su tradizioni viste con sospetto dalle nuove generazioni.
Chiaro, molti giudicheranno quest’antologia inutile perché ripropone i migliori brani dei due albums pubblicati negli anni ’90 (“Son of the morning star” del 1993 e “Legacy” del 1996), in parte rimasterizzati e con l’aggiunta di due inediti.
Ma allora mi chiedo perché mi commuovo ancora ascoltando una struggente “Love that burns”, inedita ballata crepuscolare? Perché riesco sempre ad esaltarmi con le travolgenti cavalcate delle lead di “Renegade”, “On the run”, della superba “Damn yankee”, vecchi anthems del gruppo dove il rock spiega le ali e spicca il volo con la fierezza dell’aquila?
Batto il piede al ritmo irresistibile di “Hoodoo man”, funky-blues che profuma di New Orleans e del suo incredibile calderone di cultura nera e francofona, cristiana e pagano-voodoo, e la band di Macon, Georgia, mi appare fresca e vitale come non mai.
Un greatest hits per una piccola-grande formazione, whiskey e purosangue, sparatorie e amore, chitarre, passione e rock’n’roll, e finchè ci sarà un solo “Workin’man” ed una “Rebel girl” questa musica non morirà mai.
C’è il succo di uno stile in questo disco, la fatica e la gloria di trent’anni on the road, la forza e la determinazione di gente che non si è mai venduta per un briciolo di successo in più.
“Redneck rock’n’roll band”. Lunga vita al rock sudista.
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