Qualcuno lo chiama
post-rock, altri
art-rock, altri ancora
neo-prog e alcuni si spingono addirittura fino a definirlo
avant-garde alternative rock.
Il fatto di non riuscire a circoscriverlo tra le pastoie di un genere preciso parrebbe un indizio piuttosto confortante in un’ottica di originalità, ma purtroppo le cose spesso non sono proprio come sembrano.
Il suono dei tedeschi
Frames è, in effetti, un degnissimo rappresentante di quella categoria artistica che vede gente come i connazionali Long Distance Calling, gli Oceansize, i Red Sparowes, i Mogwai e i No-man (e rilevo anche
qualcosina dei Muse, nell’impasto!) tra i principali nomi di riferimento, e tuttavia i nostri non riescono ad imprimere quel
quid di personalità che si aspetterebbe da dei giovani “ultimi arrivati”, illuminati e ansiosi di destabilizzare le regole ormai imposte dal settore.
In un ambito dove la sperimentazione stilistica dovrebbe essere il
must, i Frames e il loro “Mosaik”, un’esperienza musicale esclusivamente strumentale, si accontentano invece di allinearsi ad una logica piuttosto preordinata che contempla composizioni in continua alternanza tra rarefazione e tensione, malinconia e impeto, geometria e poesia, quasi davvero seguissero uno spartito
già scritto e ampiamente collaudato, se non addirittura un
copione non esattamente rivoluzionario.
Niente a che vedere con l’attitudine dei campioni del primigenio post-rock
made in Louisville, per esempio, in cui la sottrazione evidente a qualunque punto di riferimento
certo, rappresentava un’autentica
avanguardia sonora, lasciando l’ascoltatore in uno stato di sospensione tra inquietudine e sorpresa.
Esaurita la questione
creatività tout court, non ci resta che snocciolare i pregi di questo capace e colto (il gusto con il quale inseriscono escursioni di natura
progressive nelle tessere del loro
mosaico sonico è uno dei punti di forza del disco) quartetto teutonico, che sono invero molti, per il modo in cui organizza il gioco di difficili equilibri tra accelerazioni e rallentamenti, per la sensibilità con la quale elabora immagini dolci e amniotiche (che i bagliori psichedelici siano anche dovuti a detriti di un innato e orgoglioso retaggio “nazionale” di marca Can e Amon Duul?) che poi si trasformano in calibrate dosi d’istintiva energia, creando un quadro complessivo in cui l’elemento emozionale ha sempre il sopravvento sulla tentazione di affidarsi eccessivamente alla propria ineccepibile preparazione tecnica.
In conclusione “Mosaik”, gratificato anche da una suggestiva veste estetica, è un prodotto di alta qualità, intenso, emozionale, sufficientemente maturo e intelligente, nonché non annoiante, nonostante la sua
pericolosa ma ambiziosa configurazione espressiva che evidentemente non ha trovato delle parole adeguate alla sua esposizione.
Per vedere i Frames impegnati
pure a scardinare le convinzioni musicali del settore, bisognerà attendere probabilmente ancora un po’ di tempo.
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