Graditissimo ritorno per i veterani
Mass, uno di quei gruppi che difficilmente riuscirà a detronizzare i grandi notabili dell’hard n’ heavy, ma su cui si può sicuramente contare quando si cerca un prodotto solido, competente e appagante.
Questione di “destino”, probabilmente o, se vogliamo essere maggiormente “pragmatici”, della mancanza di un pizzico di quell’appeal “mediatico” che, nel tempo, ha giovato a formazioni ben meno preparate della nostra, una situazione che mi aveva fatto fortemente dubitare, nonostante la sua qualità specifica, in una replica a “Crack of dawn”, da considerare come l’autentico come-back discografico della band americana avvenuto nel 2007.
Evidentemente l’Escape è confidente che i Mass hanno ancora molto da dire e da etichetta valente qual è, non si è limitata a recuperarli in un periodo felice per le “riscoperte”.
Molto bene, dunque (a voler pensare male si potrebbe anche ricordare che il momento succitato non si è ancora esaurito!), ed eccoci a commentare questo notevole “Sea of black”, un disco, come di consueto, caratterizzato da una significativa varietà stilistica, da un’irreprensibile proprietà tecnica e da un brillante gusto per le melodie ficcanti e convincenti.
In continuo equilibrio tra porzioni acustiche ed elettriche, capaci d’indurire il loro suono fino alle maestose intensità di marca Queensryche, di addolcirlo con dosi oculate di Bon Jovi, d’impregnarlo della migliore
resina Zeppelin-
iana, di renderlo vizioso con bagliori street o di cromarlo di eleganza e vigore class, i Mass finiscono, a beneficio di chi se li trovasse davanti per la prima volta, per poter essere accostati anche a gruppi come Ratt, Steelheart, Dokken, Fifth Angel, arrivando, nel tentativo di essere ancora più “precisi”, a citare tra i paralleli più credibili proprio quegli Stryper così importanti nella loro storia, con i quali condividono gli ideali spirituali e spesso, a grandi linee, pure l’approccio espressivo.
I registri vocali del bravissimo e simpaticissimo Louis D’Augusta, poi, appaiono a tratti non troppo distanti da quelli di Micheal Sweet, ma spero non vogliate interpretare queste allusioni con accezioni
acriticamente emulatorie e quindi negative, quando in realtà vogliono solamente offrire un
appiglio comparativo a tutti quelli che sono stati distratti da nomi più celebri e “celebrati”.
Insomma, i Mass di “Sea of black”, pur non eccedendo nella “nostalgia”, sono profondamente radicati negli anni ’80, e anche se non sono in grado di esprimersi in maniera del tutto “personale”, si rivelano senz’altro abilissimi in quello che fanno, dimostrando, in aggiunta, un eclettismo musicale non così comune.
Tra i brani migliori segnalo senza dubbio le rocciose (ma non prive della necessaria dotazione melodica) “Falling from grace” e “The right side”, le cadenze di hard
quintessenziale di “Thru the rain” e “Justify”, in gradevole contrapposizione al romanticismo vibrante di "All the years gone”, “Coming home”, “More than a friend” e “Till we meet again”, e se il tentativo di modesto “aggiornamento” descritto in “Ashes to ashes” non dispiace, rimango sinceramente un po’ perplesso da un pezzo come la title-track, non “terribile” negli esiti complessivi, eppure “snaturata” da un guitar-sound troppo debitore nei confronti di Zakk Wilde (va bene l’ammirazione e il condire il proprio stile con distorsioni piuttosto “familiari”, ma l’eccesso
indispone, tanto più che Gene D’Itria è un musicista troppo esperto e accorto per cadere in questo “tranello”) e inficiata da una
tattica di allineamento ad suono di grande popolarità, per superare completamente indenne la
censura di un temprato apparato cardio-uditivo.
Il
Paradiso del rock duro potrà attendere anche questa volta, e tuttavia se cercate qualcosa di ugualmente ispirato, ma maggiormente “terreno” (!), “Sea of black” può fare tranquillamente al caso vostro.