Secondo capitolo della saga Terra Incognita, sontuoso progetto di convergenza tra rock e letteratura fortemente voluto da Shawn Gordon (boss della ProgRock Records e produttore esecutivo dell'opera), congegnato dagli scrittori Kevin J. Anderson e Rebecca Moesta e messo in pratica da una squadra di eminenti musicisti in grado di “far tremare i polsi” ad ogni musicofilo che possa definirsi tale.
Analogamente a quanto accaduto con “Beyond the horizon”, anche “A line in the sand” ha una sua controparte letteraria (intitolata “The map of all things”) nelle vesti d’ispirazione concettuale, e se in quel primo caso una narrazione basata su navigatori, vascelli e mostri marini aveva in qualche modo esplorato il versante più
leggiadro del prog-metal-rock, nel nuovo full-length una storia di conflitti e violenza scatena un approccio maggiormente aggressivo e greve, pur mantenendo intatte le brillanti prerogative epico-sinfoniche del debutto e conservando al contempo quelle ammalianti inserzioni hard-rock che lo avevano reso ancora più prezioso, concreto e fruibile.
Con un nuovo condottiero musicale nella persona di Henning Pauly (Frameshift, Chain, Shadows Mignon) e la solita pletora di campioni della fonazione modulata, i
Roswell Six sfornano, così, un albo parecchio comunicativo, pieno di composizioni ricche e variegate, stacchi e cadenze trascinanti, atmosfere pregne di pathos e grinta, e di una cura certosina nel fare in modo che il quadro generale appaia coeso, corposo e organico e non il risultato dell’opera illuminata di tante singole personalità di spicco interessate ad emergere singolarmente più che a rendere credibile e fluido un concept così prestigioso.
Il risultato presenta qualche minima e probabilmente inevitabile disomogeneità, ma non è proprio possibile farle pesare eccessivamente nell’economia di sessantacinque minuti di valore artistico elevatissimo, ottenuto, è ovvio, anche per merito delle laringi scintillanti di Steve Walsh (sentitela aggredire la vibrante solennità di “Barricade” e di “Spiral” o, con il fattivo contributo dell’ex Dream Theater Charlie Dominici, lo splendore
oriental-belligerante di “My Father’s son”), Michael Sadler (una sicurezza, capace di pilotare l’hard-prog mutante di “Whirlwind”, la sinfonia di marca Saga-
esque "Victory" e di turbare nella delizia vagamente Floyd-
iana “Loyalty”), Sass Jordan (la voce della rediviva cantante canadese è un autentico generatore di combustioni al calor bianco nell’eccellenza bluesy di “The crown” e si dimostra un’inclemente fonte di “cuori infranti” nella soffice "Need"), e pure Alex Froese (Frameshift) e Nick Storr (The Third Ending), sanno come far vibrare con dovizia e intensità le proprie corde vocali (anche per merito loro la vigorosa “When God smiles on us” è un altro momento assai godibile del disco).
“Terra Incognita: A line in the sand” è un Cd da non perdere se amate il prog sfarzoso, energico, immaginifico e d’istantanea comprensione e se non avete obiezioni “etiche” da sollevare nei confronti di prodotti realizzati in forma “all-star”, dove un pizzico di omogeneità è sacrificato sull’altare di un’inattaccabile competenza.
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