Un fan dei
Kamelot come me dovrebbe esimersi dallo scrivere una recensione su “
Poetry for the Poisoned”, per la ovvia parzialità delle mie orecchie. Quando si tratta di Roy Khan, mi sciolgo come una ragazzina davanti a Nick Rhodes, ma questa volta il ruolo m’impone serietà e britannico distacco. Non prometto di riuscirci, ma ci proverò… Eccovi le mie impressioni, track-by-track, al miliardesimo ascolto del tanto atteso, tanto preannunciato, nuovo album dei Kamelot.
1 – The Great Pandemonium: prima song in pompa magna, con il tipico Kamelot-sound à la “March of Mephisto”, bel riffone dalle classiche sfumature orientaleggianti e pienone della band, con screams affidate a Bjorn Strid dei Soilwork. La strofa è sostituita da un sussurrato mefistofelico, mentre il ritornello ci restituisce le melodie tanto care a Khan, melodie che, come vedremo, si faranno un po’ desiderare… la struttura non sembra delle più originali ma pazienza, il brano c’è.
2 – If Tomorrow Came: partenza a razzo, con una delle song più veloci e tirate, almeno nell’intro, dell’intera discografia kamelottiana. La strofa, invece, dà subito segni di cedimento, così come lo scontato refrain, sempre più vergato su tonalità discendenti. Sarà una costante del disco: la mancanza, o meglio la scarsa presenza di melodie accattivanti, di azzeccati refrains, che tanto fecero la fortuna della band. Qui la ricerca è soprattutto sonora, in termini di arrangiamento, post-produzione ed effettistica, il tutto forse un po’ a scapito della “canzone”.
3-4 – Dear Editor/The Zodiac: Avete presente il thriller “Zodiac”? E’ la storia (vera) di un serial killer, che appunto si faceva chiamare Zodiac, che fece ammattire la polizia americana negli anni ’70 (gran bel film, tra l’altro, vivamente consigliato). Un personaggio disturbato e pericoloso, che diventa un’ottima ispirazione per una song drammatica e cadenzata, di cui “Dear Editor” è la inquietante intro. Perla della canzone, il cameo di Jon Oliva, che con la sua voce volutamente sgraziata ed aggressiva setta il mood perfetto per un pezzo inusuale, molto d’atmosfera, ma, immagino, con poca presa live.
5 – Hunter’s Season: il secondo brano presentato in anteprima nei concerti della band è uno dei pezzi più old style dell’album, con un ritornello struggente e bellissimo, sebbene in questo disco Khan canti decisamente sotto il suo solito range vocale. Molto malinconico e triste, quindi perfettamente in linea con l’atmosfera generale dell’album, ma bello bello bello, impreziosito da un magistrale assolo di Gus “Firewind” G.
6 – House on a Hill: bellissimo brano lento, in cui Khan duetta con un’inedita Simone Simons, che finalmente smette il cantato lirico di testa per regalarci una stupenda prova di voce piena. Uno degli higlights di “Poetry for the Poisoned”.
7 – Necropolis: altro brano pesante e cadenzato, ed ancora una volta le linee vocali mi danno da pensare, di sicuro molto meno immediate dei precedenti dischi. Niente che ti rimanga in testa per più di 5 minuti, pecca purtroppo riscontrabile spesso in questa seconda parte dell’album.
8 – My Train of Thoughts: finalmente Khan esce dalla sufficienza, regalandoci un’intro da brividi, come solo lui sa fare, quando gli va. Forse la miglior interpretazione vocale del disco, per un brano ancora una volta appoggiato sul classico mid-tempo ricamato con le classiche female vocals, i classici violini in sottofondo, il classico assolo di Youngblood…
9 – Seal of woven Years: Casey Grillo scalda le pelli della sua batteria, dimostrandosi uno dei drummers più solidi della scena attuale, e parte un brano dall’ottimo riff portante. Solita (purtroppo) linea vocale poco incisiva, e solito pezzo non imprescindibile e che fa fatica ad entrarti in testa, a distinguersi dalla massa.
10-11-12-13 – Poetry for the Poisoned: la suite che incorpora i brani dal 10 al 13 è forse il punto più basso dell’album che porta il suo nome. Poco più di 7 minuti in totale, per un brano che, più volte, mi ha dato l’impressione di essere un collage di idee rimaste un po’ a spasso per i demo, in modo da fare minutaggio. Il brano in sé non ha molto capo né coda, niente di paragonabile, per fare un esempio, a quel capolavoro di trilogia che fu “Elizabeth”, su “Karma”, indiscusso apice compositivo della band. Il passaggio da una traccia all’altra sembra fin troppo slegato ed arbitrario, tenuto in piedi non da un motivo portante, né da uno sviluppo sonoro della trama. Ciò non toglie che, al suo interno, si trovino momenti piacevoli, come il bel duetto (ancora) tra Khan e Simone in “So Long”, anche se il motivo somiglia un po’ troppo alla pubblicità della Levissima… Ok, sto esagerando, ma la sensazione di un brano sconclusionato rimane. Se in questo album mi piace più Simone Simons di Roy Khan qualcosa che non va ci dev’essere, no?
14 – Once Upon a Time: il brano più bello di “Poetry for the Poisoned”. Graditissima sorpresa, per un disco che mi ha più volte lasciato con un’espressione tra il corrucciato e il deluso, ma Youngblood e soci riescono a dare il colpo di coda finale, piazzando un brano “a briglia sciolta”, e ce n’era un disperato bisogno! Refrain finalmente di quelli che ti si piazzano in testa, anche se anche qui si presenta la solita strofa sussurrata e finto-malefica. Una chiusura degna del nome dei Kamelot, che per fortuna non hanno dimenticato come si scrive una gran power song.
Che dire? Avrete senza’altro capito che quest’album mi ha lasciato perplesso, più di quanto avrei temuto, più di quanto considero accettabile per un disco dei Kamelot. L’album gode di una produzione mostruosa, meticolosa e ricchissima, ascoltato in cuffie rivela sottotracce a decine, per conferire un sound maestoso, cosa che riesce in pieno. La vera pecca, secondo me, risiede nel momento di ispirazione non felicissimo di Kahn e Youngblood, che stavolta hanno tirato fuori dal cilindro ben poche perle, del livello al quale ci avevano abituato fino a poco tempo fa. Se guardo al passato, vedo una parabola in lenta ma costante discesa, da “Karma” a questo “Poetry for the Poisoned”, e la cosa mi dispiace, perché reputo i Kamelot una di quelle band come ormai non ne nascono più, capaci da sole di inventare un sottogenere, ed in grado di divenire pietra miliare, riferimento per centinaia di altre bands e giovani musicisti.