“Gli scrittori più originali dei nostri giorni non sono quelli che portano qualcosa di nuovo, ma quelli che sanno dire cose risapute come se non fossero mai state dette”. Goethe, icona per eccellenza della cultura tedesca, si riferiva ovviamente alla letteratura (a testimonianza che quello dell’originalità dell’artista era un tema dibattuto già nel 1800 … ), ma qualcosa mi dice che i lombardi
Balrog, al loro esordio ufficiale sotto l’alto patrocinio della label bresciana My Graveyard Productions, potranno facilmente appropriarsi del concetto espresso in tale aforisma, anche se rappresentanti di una diversa e altrettanto nobile tipologia d’espressione artistica.
Del resto, quando un gruppo “nuovo” decide di affrontare un genere di musica come l’
heavy metal, qualificato da un carattere fondamentalmente “conservatore” e rigoroso, l’unica sfida davvero impegnativa e
ambiziosa, forse addirittura più “insidiosa” del tentare la strada di una novità
assoluta, è quella di riuscire a offrire qualcosa di “proprio”, per non diventare un
facsimile (anche se magari molto competente) dei maestri e dei notabili di un mondo in cui tutto sembra davvero già stato detto.
Ebbene, i nostri per nulla intimoriti dalla gravosa incombenza, sfornano una modalità operativa veramente degna di attenzione, capace di elaborare una commistione vincente e “personale” di power-metal germanico-americano, di foschi bagliori NWOBHM e di vaporose esalazioni doom, inoculata d’incombenze thrash e favorita da un gusto creativo fortemente drammatico ed enfatico, non lontano dalle istanze dell’epic metal più suggestivo.
In questo modo, “A dark passage”, si rivela come un eccellente esempio di HM ampiamente riconoscibile nella sua
fiera appartenenza ispirativa ma anche sufficientemente indipendente dalle celebrità del settore (nel caso specifico potremmo genericamente menzionare Judas Priest, i primi Savatage, i Metal Church, i Rage, i Sanctuary o i Grave Digger …) da risultare, alla fine, come una dissertazione su temi noti assai credibile, stimolante e temperamentale.
Un fitto intreccio di sincronismi chitarristici, una sezione ritmica in evidenza per duttilità e forza, la voce al tempo stesso
predatoria ed evocativa di Stefano Castagna e, soprattutto, la capacità di amplificare il suono attraverso dosi massicce di un pathos quasi esoterico nel suo alito solforoso, rendono brani come la tenebrosa “The wait”, la maestosa “The rise” (un “signor” pezzo, davvero, che potrebbe piacere, ad esempio, ai fans dei Nevermore!), la “semplice” e irresistibile “Shadows”, l’intensa "Change woman for hell” e ancora la spietata e volubile “Perpetual circle”, momenti di grande godimento per ogni
metal-head che consideri la vitalità espressiva un eloquente segno di distinzione.
Da rilevare, poi, la bella “Tears”, uno strumentale le cui “spirali” vengono sapientemente pilotate con buongusto e una discreta brillantezza armonica.
Se ricostruiamo la storia di questo disco, in pratica un demo registrato nel 2007 (“The rise”) rimasterizzato e ricantato, appaiono evidenti i possibili margini di miglioramento di una band che riesce fin da ora a emergere per personalità dalla massa dei frequentatori del settore e che potrà in futuro, se i miei fedeli timpani non mi tradiscono, forte della sua natura
demoniaca (i Balrog sono creature oscure e spaventose scaturite dalla fervida immaginazione di J.R.R. Tolkien), volare ancora più in alto, là dove gli emuli da “laboratorio” non riescono proprio ad arrivare … per la nostra soddisfazione e per una gratificazione
ad memoriam del buon Johann Wolfgang.