A volte perde il filo e di tanto in tanto si ripete un po’, ma è innegabile che la dissertazione musicale profferta dai romani
Unmask, all’esordio autoprodotto sulla lunga distanza, eserciti un notevole potere di suggestione.
Forte di un affascinante e ambizioso canovaccio lirico dove
Sophia rappresenta la personificazione della consapevolezza di sé e della conoscenza e diventa l’interlocutrice di un sofferto ed enigmatico dialogo interiore, il quartetto affida a “Sophia told me” tutta la sua passione per il
suono progressivo ad ampio spettro, sintetizzando con buona proprietà di linguaggio la tradizione del genere, il “new prog” britannico di IQ e Pendragon e un pizzico della scuola
metallica americana (Queensryche, Dream Theater, Fates Warning …), arrivando, così, come ogni band attenta anche al suo “presente”, a solcare territori analoghi a quelli già esplorati dalle “nuove” tendenze di
art-rock alternativo (dai Tool ai Muse, passando per Porcupine Tree, Opeth, OSI e Riverside).
Anche se per il momento mancano ancora la
forza e il
coraggio per superare risolutamente modelli così autorevoli, sono già evidenti fin da ora quelle caratteristiche necessarie a tentarne perlomeno un comunque gratificante
accostamento: oltre alle immancabili dotazioni tecniche, la malinconia catartica, l’inquietudine, la sensibilità e il vigore indispensabili per sondare l’animo umano nel profondo, penetrandolo e carezzandolo con strutture sonore in continua fluttuazione tra impeto, blandizia, introspezione e tensione.
Come anticipato, l’entusiasmo e l’effetto empatico vengono diluiti da una forma, presumibilmente “giovanile”, di reiterazione e di vaga prolissità, eppure la vocazione visionaria di brani come “Be twin(s)”, “Maybe tomorrow” (ispirata all’opera “Aspettando Godot” di Samuel Beckett e caratterizzata da preziose
scorie new-wave), “Within my soul”, “Voice of hush” (pregevole il tocco
ambient incastonato in una struttura che potrebbe piacere a Peter Nicholls) e “Sleepless night” (un pezzo eccellente, dotato di notevole espressività ed efficacia) non può essere trascurata, e non riesce ad essere offuscata nemmeno da una sensazione complessiva di modesta caratterizzazione, abbastanza
normale per un gruppo agli esordi e con una personalità in fase di definizione e fortificazione.
Scrematura e focalizzazione (e, forse, pure una pronuncia inglese leggermente più precisa), a mio modo di vedere, dovranno essere i mezzi attraverso cui il brillante
ensemble capitolino potrà passare dallo status di “bella speranza” a “concreta realtà” della scena
prog-alternative internazionale.
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