A vederli in foto, agghindati come pessime imitazioni di Tony Manero o ancor peggio come papponi da poliziesco di serie B, non punteresti un soldo sulla credibilità dei Red Aim, gruppo che è uno sberleffo alla seriosità della scena heavy germanica.
Invece, nonostante una critica decisamente non tenera nei loro confronti, la band di Amburgo è giunta al quarto full-lenght (loro dicono terzo considerando “Call me tiger” un semplice mini..), non male per gente che deve sgomitare priva di atteggiamenti trucidi nel regno dei metal-defenders integralisti.
Da tempo insistono di non fare parte dello stoner e di essere semplicemente una brillante e scanzonata hard’n’roll band tutta energia e groove, e riconosciamo loro che pur non proponendo nulla di clamoroso riescono nella difficile impresa di produrre musica tosta e divertente.
Personalmente mi hanno sempre ispirato simpatia per quell’aura bizzarra che li circonda, opposta alla ispida arroganza dei musicisti paludati ed indottrinati che si prendono mortalmente sul serio. I Red Aim al contrario sono perfettamente consapevoli di non essere altro che un’onesta formazione rock e vivono la cosa con la dovuta leggerezza, senza atteggiamenti profetici e senza pensare che il mondo giri intorno a loro. Quindi tirano avanti per la propria strada con una buona dose di allegria, umorismo e tante sparate istrioniche del voluminoso Don Rogers, vocalist che non segnerà la storia ma è un astuto intrattenitore.
Dopo l’interlocutorio “Flesh for fantasy” che inaugurava il rapporto con Metal Blade, pare abbiano deciso di crescere un poco e diventare più adulti. Molto tempo e impegno dedicato a questo “Niagara” con risultato di miglioramenti nel songwriting e maggiore cura per gli arrangiamenti, oltre a qualche piccola novità.
Prima di tutto è stato reclutato un quinto elemento, il tastierista Ray Volva, ed il sound è subito decollato in senso hard-seventies a colpi di buon vecchio Hammond. Belli e calorosi i botti old-school “Almost night train” e “Hard 16”, dove i Red Aim cercano di interpretare una versione riveduta e corretta ma nemmeno troppo modernizzata dei Purple anni ’70.
Qualcuno li aveva definiti “etno-rock” per via di un paio di brani degli esordi che vedevano l’utilizzo di strumenti folk come sitar, mariachi, bonghi, ed altre diavolerie del genere. In realtà le influenze etniche erano più fantasia giornalistica che reale contaminazione rock, tuttavia qualcosa di simile fa capolino in alcune canzoni. Sotto forma di corpose percussioni tribal nell’ottima “The stupidity of going east”, che vive del contrasto tra l’atmosfera obliqua alla Masters of Reality ed un fiammeggiante finale retrò-hard, ed anche come retrogusto latino nella spagnoleggiante “Matador” che conferma quanto poco teutonici siano questi tipi.
Per concludere le novità, una non determinante ma curiosa: la collaborazione con l’Hagen Children Choir, coro di voci bianche che appare nei ritornelli catchy di “Salamander”, solida come granito e funkeggiante, nella mediocre title-track e nella ruvida e vigorosa “Burnout in Israel”.
Dunque disco sanguigno, spesse radici nel passato ed un occhio attento alle sonorità moderne. Meno stravaganze che in passato, più concretezza e sfruttamento dei propri mezzi. Una degna varietà di soluzioni, dal tiro stoneggiante (“Ghost of Beluga”,”Matula”) alle sinuose melodie vocali (“Sisal sister”). I Red Aim si scoprono maturati e pronti a soddisfare palati diversi. “Niagara” è il loro album più convincente.
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