Il titolo è lo stesso di un famoso romanzo di Ernest Hemingway, l’artwork evoca uno slogan del movimento pacifista dei tardi anni sessanta (e una canzone de I Giganti, “Proposta - Mettete dei fiori nei vostri cannoni”!), ma l’attenzione è ovviamente tutta rivolta al contenuto del nuovo disco dei
TNT, passati
velocemente da uno dei principali punti di riferimento nell’ambito della scuola (nord) europea di hard rock melodico a grande rimpianto della comunità degli appassionati del genere,
sconcertati (per usare un garbato eufemismo) dal “nuovo” corso della band norvegese esplicitato nelle loro ultime pessime prove discografiche.
Le dichiarazioni di “ritorno all’antico” rilasciate a fronte dell’emissione di questo “A farewell to arms” non tranquillizzavano del tutto e anzi sembravano francamente un po’ “forzate” … personalmente non
osavo pretendere un’opera capace di mettere in discussione la prelazione discografica di “Tell no tales” e “Intuition” e mi sarei ampiamente accontentato di una prosecuzione nell’illuminato percorso di
aggiornamento stilistico espresso negli ottimi “Give me a sign”, “My religion” e “All the way to the sun”, pur ammettendo che la delusione patita nei tempi recenti era stata talmente cocente da non nutrire troppe speranze.
Sarà anche perché le aspettative erano minime, eppure la sorpresa è stata davvero piuttosto gradita.
Dimenticate i proclami, allontanate le giustificabili diffidenze e dedicatevi con concentrazione al terzo disco prodotto dai TNT con l’attuale line-up: scoprirete un lavoro abbastanza soddisfacente che sembra recuperare, in parte almeno, lo smalto e la scioltezza compositiva di un gruppo che non poteva, del resto, aver
disimparato completamente l’arte della melodia e del vigore, dell’armonia e della raffinatezza, anche se contestualizzate in strutture musicali in grado, in qualche modo, di assecondare la brama di creatività e “cambiamento” evidentemente impellenti (fin dai tempi di “Firefly”, “Transistor” e “Realized fantasies”, a ben vedere) nelle anime dei loro creatori.
“A farewell to arms” appare, dunque, come una sorta di credibile
compromesso tra il “vecchio” e il “nuovo”, con la tecnica sopraffina e l’estro di Le Tekrö al servizio di canzoni sofisticate, che ritrovano spesso il tipico fraseggio class-metal, i cori catchy e le architetture istantanee, ma non rinunciano totalmente nemmeno alle scintille
sperimentali, rimanendo ben distanti (e meno male!) dalle “stravaganze” vagamente moleste del recente passato.
Della situazione non può che giovarsi pure la voce straordinaria di Tony Mills (fortunatamente ripresosi brillantemente dall’attacco cardiaco patito nell’agosto del 2010, quando il Cd era appena stato ultimato), un singer francamente troppo esplosivo per essere limitato da composizioni poco ispirate o flaccidamente pop.
Andando al sodo, si parte bene con le chitarre poderose e “brumose” di “Engine” stemperate in una linea vocale di sicura presa e si continua ancora meglio con la contagiosa e ficcante “Refugee” (una via di mezzo tra Scorpions, Queen e … TNT!) e con la favolosa “Ship in the night”, un brano che non avrebbe sfigurato
troppo neppure nella pregiata tracklist di “Intuition”.
“Take it like a man – woman!” è ancora un buon pezzo, groovy e vitale, mentre “Come” e “Barracuda” (contrassegnata da sfumate reminiscenze di marca Cheap Trick) appaiono situazioni gradevoli e tuttavia decisamente più interlocutorie dal punto di vista dell’incisività, “Signature on a demon's self portrait” è un breve intermezzo acustico e “Don't misunderstand me” solca con gusto terreni squisitamente “adulti”, rievocando qualcosa dell’esperienza di Mills con i China Blue.
La title-track è un’altra discreta “botta”: graffiante riff Dokken-
iano e sapiente stesura melodica gratificata da lievi
astrazioni armoniche e non è facilissimo per i sensi accettare che la successiva “Someone else” si manifesti con le sembianze di una
sbilenca celebrazione dei Queen e che la successiva ballata “God natt, Marie” prosegua sulla medesima falsariga, seppur con appena un pizzico di superiore ispirazione e un tocco
folk non del tutto spiacevole.
L’appendice, in forma di bonus, con la riproposizione dell’
antica “Harley Davidson”, serve forse più a rafforzare l’idea di una rivalutazione delle “radici” che ad aumentare il “peso” artistico di un albo ancora abbastanza lontano dall’eccellenza e dal prestigio dei TNT e tuttavia, se non altro, il segno importante di una dignitosa “ripresa”, una luce, magari ancora un po’ flebile, capace comunque di squarciare quelle ombre considerate ormai impenetrabili dopo “New territory” e “Atlantis”.