Mi avevano sorpreso e intrigato, nella forma e nella sostanza, per il modo in cui avevano scelto di rendere omaggio alla tradizione del prog italico (un 10” intitolato “108”, contenente le riletture di “Ansia/Confessione” del Biglietto per l'Inferno e “Paranoia”, brano risalente al repertorio iniziale di Franco Battiato) e per le tematiche spirituali, filosofiche ed esoteriche che animavano il progetto, ma francamente non avrei mai
razionalmente immaginato, che il
Ballo delle Castagne, al suo esordio sulla lunga distanza, sarebbe stato in grado di dare vita ad un lavoro tanto “sinistramente” fascinoso, dotato di una potenza espressiva così radicata e coinvolgente.
Il gruppo milanese possiede il raro dono di una grande inventiva al servizio di un magma sonoro dove s’intrecciano influssi progressivi, elettricità hard, caligini dark rock, spirali cosmiche, profumi orientali, scorie post-punk e le forze primordiali che regolano la vita e la morte nel nostro universo, per un quadro complessivo difficile da contenere negli angusti limiti di una classificazione di “genere”.
“Kalachakra”, ispirato dal documentario “Kalachakra: the wheel of time” (che il regista tedesco Werner Herzog ha realizzato nel 2003 sull’importante rito d’iniziazione buddhista) e dedicato alla lotta di liberazione del Tibet, con tutta la sua carica simbolica (non mancano nemmeno richiami al Bardo Thodol, comunemente considerato il libro Tibetano dei morti, nel brano “Tutte le anime saranno pesate”), può essere inteso come una sorta di esplorazione ancestrale del percorso
circolare dell’esistenza umana, spesso così incomprensibile e folle nelle sue manifestazioni, concepita con la consapevolezza di un cammino insidioso e complicato che ricondurrà alla “luce” della fonte primigenia come parte integrante di un mondo superiore e assoluto, ma anche chi non fosse interessato ad approfondire i suoi risvolti
mistico-culturali, difficilmente potrà sottrarsi al carisma di questa cerimonia sonora quasi “sacrale” nella sua prepotente valenza evocativa, congeniata in modo da non essere, al contempo, uno sterile,
esotico e indecifrabile esercizio di stile.
Nelle note del disco vivono, dunque, volendo trovare
qualche riferimento orientativo, la scuola più “oscura” del prog tricolore (Il Balletto di Bronzo, Jacula, Antonius Rex e Nuova Era, arrivando fino a Black Hole, Runaway Totem e Devil Doll), l’hard/doom/dark-sound mutuato dall’anima tormentata di Dr. Z, High Tide, Capitain Beyond e Black Widow, le sperimentazioni “siderali” e introspettive di geni quali Schulze e Hammill o di formazioni evolute come Popol Vuh, Amon Duul II, Jane, Eloy (autori della musica nella liturgica “I giorni della memoria terrena”) e Third Ear Band e anche bagliori del lirismo trascendente dei Joy Division e del blues apocalittico dei The Doors, eppure la revisione di tutti questi ascendenti non appare né troppo compiacente né eccessivamente superficiale, fornendo all’ascoltatore l’immagine distinta di un’opera personale e palpitante.
La voce di Vinz è maestosamente inquieta e rituale, e appare ancora più conturbante quando accostata al canto ieratico e perentorio di Carolina Cecchinato (ospite della fosca e irresistibile tentazione denominata “Passioni diaboliche”), le tastiere e le chitarre di Marco Garegnani dipingono paesaggi iridescenti, radiosi, onirici, arcani o, all’occorrenza, opportunamente “fisici”, in un suggestivo contrasto tra luci e ombre, mentre le pulsazioni del basso cupo e visionario di Diego Banchero e i fremiti della batteria coordinati da Jo Jo forniscono il cuore ritmico ad un suono che s’insinua nella mente dando ”forma” al pensiero e all’immaginazione.
Dei singoli episodi qualcosa è già stato detto, e qui non ci resta che aggiungere del
mantra sviluppato nella title-track, tra sublimazioni lisergiche, aperture enfatiche e arabeschi di sitar, del crescendo drammatico (tra Goblin e oblii di natura Doors-
esque) della favolosa “La terra trema” (ispirata a “Aguirre, furore di Dio”, ancora un film di Herzog), gratificata da un finale dove il violino di Marco Cavaciuti diventa un inestimabile valore aggiunto, della melodia meditativa e dell’aura sospesa nel tempo e nello spazio de “La foresta dei suicidi” (uno strumentale sostenuto dal vocalizzo elfico di Maethelyiah) o ancora del magnetismo “alieno” di “Omega” e dell’epilogo
auto celebrativo, in cui il recitato di Klaus Kinski (tratto dal controverso e provocatorio
reading teatrale “Jesus Christus Erlöser”, a suggellare ulteriormente il forte legame della band con l’immaginario Herzog-
iano, di cui l‘istrionico, iracondo e “depravato” attore di origine polacca - “
Si dovrebbe giudicare un uomo per le sue depravazioni. Le virtù possono essere simulate. Le depravazioni sono reali”, affermò nella sua autobiografia - fu spesso essenziale strumento espressivo) contribuisce non poco ad alimentare un incombente clima di turbamento, piuttosto seduttivo nelle sue esalazioni cariche d’ipnotiche e avvolgenti suggestioni.
Tante parole, “forse” pure troppe, per placare la mia congenita urgenza
didascalico /
comunicativa e per “convalidarne” una sola, molto
coreografica, da usare con parsimonia, e tuttavia l’unica adeguata a descrivere un prodotto artistico di tale impatto emotivo:
capolavoro.