Il problema principale nel recensire il nuovo lavoro di un gruppo come i
Journey, colosso dell’AOR internazionale, non è di certo quello
qualitativo. Anche lontana dai fasti impareggiabili degli anni ottanta, la produzione dei nostri ha obiettivamente sempre garantito un eccezionale standard artistico. La questione semmai è riuscire ad essere
equanimi quando nella mente, nel cuore e nei muscoli sono impressi indelebilmente autentici capolavori epocali del calibro di “Evolution”, “Departure”, “Escape” e “Frontiers”, quando la voce onestamente ineguagliabile di Stephen "Steve" Ray Perry ti ha soggiogato così
intimamente da renderti suo “schiavo” per sempre.
Inutile ribadirlo, dunque, Steve Augeri era straordinario, ma comunque “imperfetto”, Jeff Scott Soto si avvicinava pericolosamente al “prototipo” (anche a livello di “carisma” … e temo che la complicazione sia stata proprio questa …), ma ha avuto poco tempo per tentare l’impossibile “sfida” e Arnel Pineda, anche se è un cantante fenomenale, dotato di una laringe
strategicamente assai “simile” al magico organo della fonazione modulata Perry-
ana, non potrà mai interrompere l’incantesimo.
Una volta assodati tali fatti, a questo punto, però, è anche necessario un clamoroso e poco urbano “
… bene, e chi se ne importa?” Chi può essere
davvero interessato a continuare a rimpiangere i “tempi d’oro” (tra l’altro facilmente rivivibili, ancorché in maniera
surrogata, rispolverando la propria preziosa collezione melodica …) se poi i Journey, pur nei loro “limiti” (mamma mia cos’ho detto!) attuali sono capaci di sfornare un album come “Revelation” e ancor di più un gioiello come questo “Eclipse”, capace di rafforzare ulteriormente la stratosferica statura del gruppo, una dimostrazione di vera superiorità in grado di scacciare immediatamente ogni eventuale sospetto d’inaridimento creativo? Francamente solo qualche ”irriducibile” nostalgico e sebbene si debba il necessario rispetto anche all’opinione di tali personaggi, mi permetto di suggerir loro un piccolo sforzo di “oggettività” affrancandosi per un attimo dalle
memorie di quel regno dorato e irripetibile, per immergersi ancora una volta nello spirito
radiofonico evoluto di questa
tuttora inarrivabile creatura.
Pineda, a quanto sembra maggiormente coinvolto nel processo artistico del disco, ha acquisito sicurezza ed è il primo ad accendere la “scintilla”, canta senza freni inibitori con una gagliardia e una sensibilità davvero entusiasmanti, Schon è il solito
titano della chitarra, il vero dominatore del disco, pronto a rispondere con fraseggi di classe cristallina e con il consueto mutevole estro a chiunque osasse sfidarlo sul terreno di cui è l’indiscusso sovrano, Cain, Valory e l’incredibile Castronovo, con il suo drumming raffinato e prestante, sono impeccabili sotto ogni profilo.
Illuminato dalla scintillante produzione di Kevin Shirley, musicalmente l’albo ostenta un grande equilibrio tra impulsi grintosi e melodia: qualcuno potrà parlare di un incremento nelle sfumature
prog, di arrangiamenti leggermente più
compositi, ma la questione fondamentale è che “Eclipse” è un lavoro che si preoccupa soprattutto di essere coerente con se stesso e con la brama quasi “adolescenziale” di una band intenzionata a dimostrare chi ha ancora saldamente in mano le redini del suono adulto e lo fa con una naturalezza e una disinvoltura davvero encomiabili e (per certi versi)
disarmanti.
Stabilire delle priorità, a questo punto, è impresa improba per un programma che ha veramente pochissime impercettibili flessioni e tuttavia tengo a sottolineare
in primis la sublime “familiarità” di "City of hope", il riff attanagliante e l’inarrestabile estensione armonica di “Edge of the moment" (sarà una
suggestione dovuta all’assonanza delle testate, ma l’effetto emotivo non è
troppo lontano dall’immortale “Edge of the blade” …), il divino crescendo armonico e il vibrante clima vagamente Kashmir-
esco di "Chain of love" e l’inestinguibile passionalità interiore di "Tantra", una “specialità della casa” che trasmette brividi di
feeling difficilmente simulabile.
Quattro pezzi che da soli basterebbero a magnificare qualunque altro prodotto di settore, ma qui troverete anche "Anything is possible" e le sue terse trame melodiche, un’autentica “bomba” di AOR
progressivo come "Resonate", governato da un esaltante afflato crepuscolare, e ancora il suggestivo tocco bucolico di "She's a mystery", una sorta di Zeps
meets Triumph (sentite il break), ma trattato con il gusto inconfondibile dei Journey.
In tanta opulenza, la digressione
tribal-hard-rock-blues di "Human feel" finisce per essere considerata un momento piuttosto gradevole eppure lievemente interlocutorio, e la stessa impressione la riservano l’agile e ariosa andatura di "Ritual" e il rigore formale di "Someone", mentre l’enfasi sentimentale di "To whom it may concern" manifesta la bellezza e la semplicità di un’emozione mai banale se così autentica e “Venus" espande attraverso una pirotecnica
pièce de résistance strumentale l’epilogo melodico della stessa “To whom it may concern”, consentendo all’ascoltatore di registrare nuovamente tutta la supremazia esecutiva e la fantasia possedute dell’immarcescibile formazione californiana.
In conclusione, l’ispirazione è tangibile, le qualità individuali sono irreprensibili, l’identità della band è solida, così come la sua innata personalità, che le consente di non riciclarsi apaticamente … è giusto affermare che “Eclipse” (o “ECL1P53”, se preferite) non è né “Escape” né “Frontiers”… solo perché è un’
altra meraviglia targata Journey.