E' inutile, il mio efficientissimo indicatore di gradimento epidermico non sbaglia un colpo. Sono bastate 4 canzoni di "
A Mind's Chronicle", per la precisione l'ascolto di "
The Illusion", per determinare che questo sarebbe stato album grandioso, a giudicare dalla pelle d'oca.
E così è.
Un debutto coi fiocchi quello dei nostrani
Infinita Symphonia, figlio tra le altre cose di un discreto battage pubblicitario, a posteriori sicuramente meritato, complici soprattutto le due ospitate di lusso, delle quali parleremo più avanti in sede di disamina delle loro prestazioni.
Ora parliamo di
Luca,
Gianmarco,
Alberto, ancora
Luca,
Claudio e l'ultimo entrato
Juan Pablo, ovvero gli
Infinita Symphonia. Nascono nel 2008 dall'unione di intenti di
Luca Micioni e
Gianmarco Ricasoli, rispettivamente il più "vecchio" (34 anni) e il più giovane (22 anni) del gruppo, che uniscono la passione per l'heavy metal ottantiano e quella per il power/prog di più recente estrazione. Quello che ne risulta è appunto
"A Mind's Chronicle", il lavoro di 3 anni, una perfetta fusione di "epoche" musicali differenti, fusione che sfocia in 11 tracce di assoluto valore, dove ognuna racconta una sua storia e tutte assieme un viaggio, un viaggio periglioso nella mente dell'essere umano.
Iniziamo con "
Intro(verted)", che come possiamo facilmente intuire è una veloce intro strumentale, prettamente sinfonica (e ne avremo parecchie di queste aperture, a dimostrazione che il monicker non è stato scelto a casaccio), che ci porta subito all'aggressivo combo iniziale formato da "
Lost in my Own Brain" e "
Mighty Storm", dove facciamo la prima conoscenza con
Luca Micioni, padrone di una voce chiara, nitida, leggermente roca, nella quale leggiamo chiara e innegabile l'ispirazione di vere e proprie icone quali
Bruce Dickinson e
Geoff Tate, più una spruzzata di
Tobias Sammet. Voce a mio modo di vedere perfetta per la proposta musicale degli
IS (passatemi l'acronimo), sulla quale l'unico appunto possibile è una non perfetta padronanza della lingua inglese, in particolare nelle parti più lente e "scoperte", dove gli strumenti passano in secondo piano e qualche peccatuccio di pronuncia fa capolino qua e la. Ma passa tutto in secondo piano rispetto al talento che Luca riversa in ogni canzone, ed è comunque un qualcosa di facilmente migliorabile.
Arriviamo così alla già citata “
The Illusion”, una delle migliori power ballad che io abbia mai sentito nella mia “carriera”: intro di pianoforte e chitarra lievi come neve, l’ugola di Micioni che nelle strofe accarezza letteralmente le note fino all’esplosione nell’orgasmico chorus, zenit di 5 minuti abbondanti di power sinfonico come se ne sente raramente in giro. La pelle d’oca mi ha colto al 1 secondo e abbandonato al 330esimo, assoluto godimento, e qui il sospetto di trovarsi al cospetto di un grande album diventa purissima realtà.
Il resto è una perfetta e ariosa alternanza di momenti più aggressivi, come la maideniana “
Planet Universe”, con altri più tranquilli (“
From Earth to Heaven” nel suo malinconico incedere ricorda echi dei
Savatage di "Dead Winter Dead"), dove le atmosfere delle tastiere di Claudio Metalli ci coccolano in attesa della successiva esplosione sinfonica.
In tutto questo si inseriscono alla perfezione i due special guests di cui parlavamo poc’anzi, nientemeno che
Fabio Lione e
Tim “Ripper” Owens. Lione si destreggia con la sua consueta abilità su
“Here There’s no Why”, duettando meravigliosamente con Micioni, mentre Owens regala la sua proverbiale aggressività nella strofa della successiva “
Only one Reason”, salvo accompagnarsi nel bellissimo chorus ancora una volta a Micioni, che non abbandona mai il suo posto dietro il microfono nemmeno al cospetto di due veri mostri sacri del bel canto, dimostrando in questo una bella dose di carisma, che non guasta mai.
In conclusione un lavoro ottimamente presentato, ottimamente suonato, ottimamente cantato e ottimamente prodotto (il mastering finale è stato realizzato da Mika Jussila nei celeberrimi Finnvox Studios, garanzia di qualità). Tutto ottimo quindi, per un risultato a tutto tondo, che dimostra ancora una volta che non c’è bisogno di sconfinare sempre nell'ormai stereotipata Scandinavia per trovare dell'ottimo power, anche se di power puro non si tratta. Album come questi ne escono davvero uno ogni tanto, non ha un punto debole, non ha un singolo momento di stanca. Consigliato a tutti, il talento assoluto non merita etichette di generi. Per quanto mi riguarda, ad oggi, album dell’anno.
Quoth the Raven, Nevermore..