Interessante e sorprendente
evoluzione in senso
prog-metal per i
Dreamhunter di Brescia, che avevamo lasciato (con il debutto “The hunt is on” del 2006) come una buona band di hard n’ heavy classico e che ritroviamo nel 2011 alle prese con un suono decisamente più articolato e volubile, in grado di evocare l’approccio artistico di Queensryche, Vaden Plas, Shadow Gallery e Sieges Even.
“Roll back”, sostenuto da una sorta di concept in cui s’immagina un ciclo vitale vissuto a ritroso, mantiene in qualche modo il sostrato
cultural-musicale della band, ma oggi le sue alchimie sonore si arricchiscono di versatilità e creatività, andando ad assemblare una serie di composizioni piuttosto affascinanti, pur nella loro accresciuta complessità.
Lontani dalle cervellotiche produzioni a cui il genere ci ha spesso abituati, i Dreamhunter riescono a combinare un notevole gusto armonico e melodico ad incisività e imprevedibilità, creando un ibrido abbastanza personale, che richiede la giusta attenzione senza per questo costringere l’ascoltatore a soverchi sforzi di concentrazione.
Piace particolarmente la maniera in cui l’influsso di
prog-rock autoctono viene trattato ed inserito nel contesto complessivo, conservando la propria identità e tuttavia risultando integrato in un quadro che con un pizzico di maggiore compattezza avrebbe davvero potuto aspirare all’eccellenza.
Alcune incongruenze e un vago senso di dispersione, invece, limitano l’efficacia di un lavoro che parte solo “benino” con “The night I left” e “ Roll back”, brani attraenti e tuttavia un po’ disorganici per poi cominciare ad aumentare il coefficiente di persuasione con “Superstition”, un’elaborazione apprezzabile per fantasia e magnetismo.
I colpi emotivamente più “impressionanti” arrivano, però, grazie a “The first time I met her”, avvincente
escalation ricca di
pathos, e dopo il pulsante
hard number “The middle” nuovamente altalenante negli effetti sensoriali, a "Honest world”, una fluttuante esplorazione melodica, alla drammatica "New chance”, breve intermezzo acustico tra Queensryche e Savatage, a "Try again”, “Small gods” e alla delicata strumentale “Sunshine”, un ammirevole trittico che condensa tutte le migliori qualità attuali dei Dreamhunter, esibendo sensibilità, erudizione, intensità e inventiva, il tutto privo di evidenti cedimenti.
In mezzo a tanta opulenza riesce ad emergere comunque anche “Memories of the hunter”, un momento probabilmente leggermente più “ordinario” nella sua enfasi dagli accenti
celtico-caliginosi, eppure da annoverare tranquillamente tra i “pezzi forti” dell’albo, arrivando addirittura a segnalarsi con prepotenza per la tradizionale ricerca del
best in class.
Come anticipato nel prologo di questa disamina, la metamorfosi in atto è sicuramente intrigante e meritevole di attenzione, quantunque probabilmente non ancora del tutto compiuta … i Dreamhunter sono senza dubbio sulla buona strada e fin da ora si può godere di questa luccicante
crisalide pregustando quello che
fatalmente, se le leggi naturali sono rispettate, succederà da qui a breve.
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