Ma guarda un po’ chi si risente!
Per una volta non mi riferisco a qualche “vecchia gloria” di ritorno, ma ad un genere che negli anni ’90 era stato considerato l’oggetto di una vera
rivoluzione, il suono in grado di rompere tutte le barriere conosciute, liberando la scena dalle segregazioni musicali, se non addirittura da quelle razziali e sociali.
Stiamo parlando del
funky-metal, prima autentico fenomeno creativo e poi, come spesso accade,
trend fagocitato dall’industria del disco, con relativa saturazione e riduzione drastica dei suoi affiliati.
Ebbene, i toscani
Sushi Rain, con il loro esordio “Breathless”, riportano in auge proprio quell’epopea rappresentata da Living Colour, Stevie Salas, Psychefunkapus, RHCP, Lock Up (il gruppo che portò alla ribalta Tom Morello … il loro “Something bitching’ this way comes” è un piccolo “manifesto” di
meltin’ pot metropolitano urgente ed elettrizzante), Scam Luiz, Fishbone, White Trash, senza dimenticare pionieri come Mother’s Finest o ancora gruppi come Extreme, Circle Of Soul, Electric Boys (ritornati di recente con un buon lavoro) e Dan Reed Network.
Affermare che i nostri rappresentino un’autentica “novità” è, dunque, ben più che
azzardato, eppure, da
vecchio fan del settore, apprendere che esiste ancora qualche formazione emergente affascinata da queste sonorità, non può che essere una buona notizia.
Meno
gratificante è invece scoprire che i nostri non sono ancora completamente “degni” di riferimenti così prestigiosi e che, pur tecnicamente piuttosto validi (‘MADame MADness’ è un chitarrista adeguatamente estroso e fluido, la sezione ritmica è di livello, mentre nutro qualche riserva sulla voce di Matteo Carrai, non sempre equilibrata e leggermente “provinciale” nella pronuncia inglese) e dotati di un variegato
background culturale, mancano un po’ di compattezza e incisività soprattutto dal punto di vista della scrittura, incapace al momento di ostentare un irreprensibile bilanciamento tra inventiva,
groove e
appeal istantaneo, ledendo, così, la migliore tradizione di questi vibranti lidi sonici.
Ciò non toglie che nell’albo ci siano momenti piuttosto riusciti come le sfrenate “Shake your body to the disco hell” e “Something Illegal inside my life”, la più meditata “Don't waste more tears” (forse il pezzo migliore del programma) oppure ancora le trame di
hard-blues mutante illustrate in “Happy for another night” e nella smaniosa "Midnight queen”, e tuttavia anche in questi casi la sensazione generale è quella di una scarsità di coordinamento all’interno di un contesto di assodato valore e notevole talento.
Esito finale comunque positivo, nell’attesa di una guida (magari rintracciabile in un patrocinio discografico competente e appassionato) che possa canalizzare efficacemente tutti gli intriganti stimoli e trasformarli in grandi canzoni che lascino davvero “senza fiato”.