Ispirarsi apertamente ai colossi dell’hard dei
seventies è un diventato un
trend piuttosto diffuso, e se bisogna ammettere che spesso la qualità media delle produzioni relative è piuttosto elevata, la differenza in tale operazione r
evivalistica lo fa il “carattere” delle composizioni e delle interpretazioni, non sempre così spontaneo e convincente da rendere il quadro complessivo veramente credibile.
Tra gli interpreti più appassionati e intensi di quest’attitudine, in grado di offrire un contributo artistico importante alla causa, pur nella loro evidente devozione all’eredità rappresentata da Black Sabbath, Led Zeppelin, Blue Cheer, May Blitz, Budgie e Groundhogs, ci sono sicuramente gli svedesi
Graveyard, artefici di un suono vibrante e avvolgente, caratterizzato da tutti gli elementi costitutivi del genere (riff cavernosi, distorsioni di retaggio blues, squarci sulfurei, palpabili riverberi psichedelici), ma privo di quel rigido e “scientifico” schematismo che marchia indelebilmente molti frequentatori della popolare “stagione del vintage”.
Il loro disco di esordio omonimo su Transubstans / TeePee Records (2007 / 2008) li ha, infatti, rivelati come un concentrato di energia, tensione, fantasia e virtù emozionali, impossibile da passare inosservato almeno alle “orecchie” più attente ed esperte, comprese quelle di una label come la Nuclear Blast che, oltre a licenziare il loro secondo capolavoro “Hisingen blues”, decide oggi di ristampare anche il suddetto esordio, allo scopo di conferirgli quella maggiore visibilità che merita in maniera incontrovertibile.
Gioiscano, dunque, i sostenitori dello
psych-heavy-rock finora distratti da altre
sensation più sponsorizzate o magari quelli che, avendoli conosciuti solamente di recente, hanno poi avuto difficoltà (circostanza un po’ improbabile, con le possibilità
cibernetiche attuali …) a ricostruire la completa parabola artistica dei nostri favolosi scandinavi.
Saranno sufficienti pochi minuti delle ribollenti, trascendenti e suggestive “Evil ways", “Thin line”, “Lost in confusion” e "Submarine blues” o ancora il potere evocativo delle vertigini
lisergico-darkeggianti di “Blue souls” e “As the years pass by, the hours bend”, cantate dal chitarrista Truls Mörck, sostituito da Jonatan Ramm dopo la registrazione dell’albo, per rendersi conto che i Graveyard non sono uno dei “tanti” seguaci del movimento e già in questo primo lavoro fornivano un’imponente dimostrazione di tutta la loro autorevole distinzione, successivamente ampliata e consolidata con l’altrettanto emozionante replica discografica.
Un unico appunto alla lodevole iniziativa di valorizzazione della band attuata dall’etichetta tedesca … l’
artwork originale era decisamente più fascinoso ed
esoterico (la raffigurazione di una sorta di versione
pagana e
dissoluta dell’ultima cena, realizzata da un non meglio identificato Davis, passato a “miglior vita” nel 2006 a soli ventisei anni e ricordato nelle note del Cd con un “
quem di diligunt, adolescens moritur”) … solamente un piccolissimo dettaglio critico per un’opera che rinsalda la catena di congiunzione tra passato e presente con l’indistruttibile anello dell’ispirazione.
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