Anche in un mercato discografico invaso da uscite che esprimono tutto il loro spirito “reazionario”, guardando con insistenza e valore alla storia
antica del rock, ci sono gruppi che si stagliano per competenza e personalità distintive, quasi la restaurazione di un’epoca fatalmente irripetibile fosse una circostanza possibile e concretamente realizzabile, almeno attraverso la forza espressiva delle loro note musicali.
In questa esemplare categoria di artisti è piuttosto agevole inserire i
Graveyard, brillante formazione svedese approdata alla corte dell’autorevole Nuclear Blast dopo un favoloso albo d’esordio su Transubstans / TeePee Records (da poco ristampato proprio dalla loro attuale label),
lapalissiano rivelatore di un luminoso talento al servizio di una vocazione
seventies tanto devota quanto autentica.
Così, se tutto è iniziato con Black Sabbath, Led Zeppelin, Blue Cheer, Cream, Groundhogs, James Gang e Pink Floyd, oggi l’eredità di quei suoni è saldamente nelle mani di “gente” come questa, impossibile da liquidare come una forma di “scolastica contemplazione” degli inarrivabili modelli, in virtù di uno spessore e di una tensione compositiva davvero encomiabile ed emozionante.
Rispetto al pur avvincente debutto la band acquista ulteriore sicurezza e intensità, fornendo un quadro emotivo assolutamente catalizzante, dove imponenti riff di chitarra lacerano melodie vibranti e tenebrose di retaggio blues, mentre i sussulti avviluppanti delle rifrazioni psichedeliche e la voce viscerale di Joakim Nilsson imprigionano definitivamente l’ascoltatore appassionato colpendolo proprio là dove fa “più male”, dritto al centro dei sensi.
La carica primordiale di “Ain't fit to live here”, l’irresistibile andamento avvolgente di "No good, Mr. Holden”, l’appassionante impronta
space-hard-rock della
title-track, le pulsazioni stordenti di "Buying truth (tack & forlat)” e "Ungreateful are the dead”, e ancora (forse più di tutte le altre) l’alternanza tra oscillanti rarefazioni ed esplosioni soniche che marchiano "The siren” sono innegabilmente irrinunciabili dimostrazioni dell’impressionante “forza” artistica di cui è capace il quartetto scandinavo, in grado di sorprendere finanche con un suggestivo strumentale
Morriconiano come “Longing”, per una configurazione ispirativa piuttosto “aperta” e sempre fascinosamente visionaria.
Tradizione e creatività si fondono con precisione ed equilibrio nella filosofia musicale dei Graveyard, una formazione che, anche grazie al prestigioso patrocinio discografico, non può che confermare il suo ruolo di spicco nell’ambito di un settore molto ben frequentato.
Tutto pienamente meritato, per una volta.
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