I finlandesi
Orne nascono dalle ceneri della doom cult-band Reverend Bizarre, ed il loro secondo sforzo discografico viene pubblicato dalla nostrana Black Widow.
E’ bene chiarire subito che il presente progetto si colloca molto distante dalle coordinate stilistiche heavy doom. Qui siamo di fronte ad un lavoro raffinato, evocativo, dai toni languidi e dark-progressivi, nel quale i veri protagonisti sono le tastiere di matrice seventies e la voce declamante e trasognata, mentre le chitarre restano un po’ sullo sfondo come rifinitura ed accompagnamento, sia elettrico che acustico. L’insieme viene impreziosito dagli inserti di flauto, sax, violino, che aggiungono un tocco di suadente eleganza.
L’atmosfera che caratterizza l’intero album più che greve ed oscura si presenta palesemente onirica, con richiami a certe ballate folk-bucoliche che profumano di villaggi in festa, campagna brumosa e boschi incantati. L’influenza primaria degli Orne è quella del british-prog ’70, dove Hammond e Mellotron intrecciano arabeschi cristallini con distorsioni elettroniche, ed i brani si aprono ad avvolgenti malinconie e fughe strumentali.
Nell’iniziale “Angel eyes”, ad esempio, si coglie l’eco dei Genesis più delicati e rarefatti, mentre in altri momenti è l’ombra dei Van Der Graaf di “Pawn hearts” a rievocare un passato glorioso. Il gruppo scandinavo aggiunge una leggera vibrazione sinistra, sottilmente inquietante come un cattivo presagio, che sposta tutto sotto una luce maggiormente dark.
Peccato manchi qualche guizzo più energico, perché il disco resta sospeso tra un’intensità ammaliante e qualche diafana trasparenza di troppo. Certamente lo consigliamo più agli amanti del prog-rock “vintage”, anziché ai doomsters in caccia di pesantezze sabbathiane.
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