Per chi ama il power metal, quello autentico, quello puro,
Jack Starr è un pezzo di storia. Chitarrista storico dei
Virgin Steele, Starr ne è fuoriuscito nel 1983, innescando una serie di produzioni una più bella dell’altra, in molte delle quali respirava forte il suo amore per il metal più epico, potente e classico. Proprio la sua incarnazione a nome Burning Starr ebbe alterna fama nella seconda metà degli anni ottanta, inanellando una serie di dischi di indubbio spessore artistico ma di successi non lusinghieri. Dopo di che, Jack inizia a sperimentare, calcando i sentieri del blues, o collezionando collaborazioni con una marea di grandi artisti della scena rock mondiale, accrescendo la sua fama e rispettabilità a livello internazionale.
Una pausa di ben 20 anni separa quegli album da “Defiance” del 2009, e dal qui presente “
Land of the Dead”, ultima fatica discografica di Jack e dei suoi rinati Burning Starr. E devo dirvi che il mio cuore di metallaro si gonfia di orgoglio, nell’ascoltare questo nuovo, potente, fiero capitolo della saga di Jack Starr.
La formazione è rimasta la stessa del precedente cd, laddove svetta l’ugola cristallina ed acuta di Todd Hall (a cavallo tra Dio e Halford, una goduria per le orecchie); dietro le pelli, l’ex Manowar Rhino sa come dare, con la sua batteria, ancora più potenza ed epicità ad una manciata di canzoni che vi faranno alzare il pugno al cielo, mentre la vostra bandiera garrisce imperiosa accanto a voi…
La coppia d’apertura non fa prigionieri: “
Land of the Dead” e “
Sands of time” vi chiariranno, qualora ce ne fosse bisogno, il concetto tanto caro a Manowar, Virgin Steele, Judas Priest e compagnia danzante: qui scorre il metallo più puro, incontaminato e old style degli ultimi anni! Chitarre roboanti, sezione ritmica schiacciasassi e voce acuta e potentissima, su liriche a dir poco esaltanti! Mi sistemo meglio l’elmo vichingo sulla testa, ché tanto pogare rischia di farlo cadere…
L’album procede in maniera spedita, con pochissimi fronzoli ed una produzione nostalgica e dal sapore analogico; non un filo di auto-tune, non un effetto oltre un minimo di riverbero, i brani sembrano suonati live in studio, tanta è la sensazione di spontaneità che lasciano trapelare. Un’ora buona senza particolari cali di tensione, “Land of the Dead” si candida pericolosamente ad entrare nella mia top ten di fine anno, complice anche una copertina così sfacciatamente TRVE (opera di un certo Ken Kelly…) da farti scappare un sorrisetto... Ciò che è sicuro è che il prodotto mira ad un settore di mercato orfano dei grandi nomi che fino a pochi anni fa imperversavano senza fare prigionieri. Tutti gli amanti del metallo più metalloso, becero, puro e potente non potranno esimersi dall’accaparrarsi l’ennesima gemma di un chitarrista che, nel suo piccolo, è un’icona assoluta del Trve Metal. Hail!