Non si può non pensare a Marillion e a Pink Floyd ascoltando questo disco, il secondo, dei
Nine Stones Close. Sono troppe le affinità musicali ed emotive che legano i nostri olandesi ai suddetti maestri del (prog) rock, analoga la capacità di toccare le corde più profonde dell’anima tramite un percorso sonoro ipnotico, amniotico, sognante e malinconico.
Ed è proprio questa dote rara e preziosa a conquistare anche laddove le fonti ispirative (a cui si possono aggiungere gli immancabili Porcupine Tree e qualcosa dei norvegesi Gazpacho) sono tanto
palesi e
vivide, è lei la caratteristica principale di canzoni che entrano in circolo e non escono più, trasportando l’ascoltatore in un universo avvolgente e intorpidito (la rappresentazione del famoso “
confortably numb”?), dove gli orrori del mondo reale sembrano lontani e la dimensione onirica, con i suoi surreali colori e tutta la sua carica di vibranti suggestioni sensoriali, tra scenografie rassicuranti e figurazioni allucinatorie, s’impossessa prepotentemente delle sinapsi cerebrali.
Atmosfere liquide, fluttuanti, soffuse e vaporose, che danno l’illusione di
movimento mentre in realtà restiamo
immobili nella nostra accettazione del protettivo oblio, si realizzano essenzialmente tramite lo spirito visionario delle chitarre di Adrian Jones e la voce ammaliatrice e penetrante di Marc Atkinson, davvero efficace in questo contesto così crepuscolare, struggente ed evocativo e anche se le citazioni sono praticamente
proibite, in un albo che non vuole essere (come del resto dichiarato espressamente dai suoi autori) una collezione di singoli e che merita di essere apprezzato dalla prima all’ultima nota nella sequenza prevista, mi permetto comunque di segnalare la lunga
suite conclusiva “Thicker than water” come un momento assai appassionante, gratificato da una varietà espressiva che non disdegna neppure irruenti impennate soniche, ostentando
screziature di autentica genialità compositiva, seppur all’interno di un ambito stilistico ben delineato.
Lo splendido
artwork curato da Ed Unitsky (The Flower Kings, The Tangent, Unitopia) fornisce il
bozzolo adeguato a “Traces”, quarantaquattro minuti di
trasporto e
contemplazione compressi in un luccicante pezzo di policarbonato e alluminio.
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