Nell’agosto del 1969, a Bethel, una piccola città agreste nello stato di New York si svolse la tre giorni di “pace, amore e musica” universalmente conosciuta come il Festival di Woodstock, apoteosi di quel movimento
flower power che solo qualche mese più tardi avrebbe visto soffocare nel sangue tutte le sue utopie libertarie (Charles Manson e il massacro di Bel Air, Altamont, …).
Quei fugaci momenti di libertà e creatività
assoluti, in cui l’illusione che esistesse davvero “un’isola felice” fondata sulla musica sembrava prendere forma concreta, rimangono comunque l’emblema espressivo (ed in un qualche modo l’epitaffio) inequivocabile degli anni sessanta, l’epoca probabilmente più fulgida per il rock, ed è per questo che l’operazione di celebrazione di quell’
happening, organizzata dal chitarrista tedesco
Siggi Schwarz e da una schiera di ospiti autorevoli (si va da Chris Thompson, voce per Manfred Mann e Steve Hackett, passando per i miti Michael Schenker e Steve Lukather, per Geoff Whitehorn, collaboratore di Procol Harum, Bad Company, … , e finendo con Alex Conti, Josè Cortijo, Romi Schickle, Erin Perry e parecchi altri, nomi magari leggermente meno noti, ma certamente all’altezza dell’impegnativa situazione) ha sicuramente una certa valenza artistica, sebbene personalmente non sia un grande estimatore, al di là di una “naturale” fascinazione iniziale, di queste forme di esibizione in configurazione “all star”, per di più se infarcite (
cfr. il booklet del disco) di descrizioni dettagliate (con dovizia di marche e modelli) delle strumentazioni utilizzate (Siggi, tra l’altro, è anche titolare di un negozio specializzato), che sanno tanto di pubblicità neanche tanto
subliminale.
Se poi si tratta, come in questo caso, di riproporre quattordici brani (scelti tra il ricchissimo materiale a disposizione …) diventati autentici “classici” del rock, grazie anche alla devastante carica emozionale offerta dai loro interpreti originali (Joe Cocker, Jimi Hendrix, Santana, Janis Joplin, Johnny Winter, Canned Heat, …) è chiaro che l’operazione di riproposizione non può prescindere dal tentativo di recupero del giusto “spirito” (dacché, per ovvie ragioni, la tecnica non è mai in discussione), ed è fortunatamente in questo campo che l’insigne
team sembra aver compiuto gli sforzi maggiori, restituendoci versioni abbastanza calorose e credibili, capaci di coniugare devozione e personalità pur senza
travolgere, è bene sottolinearlo, con dosi particolarmente impetuose di
feeling.
“Woodstock” è, dunque, un disco assolutamente prescindibile, che tuttavia si lascia ascoltare con un certo piacere e che sarà utile soprattutto per “non dimenticare” o, ancora di più, per sperare che sappia indurre qualche “imberbe” musicofilo a (ri)scoprire il lavoro di questi (e magari anche di quelli qui non rappresentati) straordinari giganti della stagione più magica della
rock-music.
Completamente trascurabile la
bonus video-track, sette inconsistenti minuti di “dietro le quinte” catturati durante le sessioni di registrazione in studio.
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